Diritto Penale
Un caso paradossale
Era il ventuno di Marzo. Me lo ricordo bene perché mancavano solo tre giorni al mio compleanno. Ebbene sì, io sono uno di quelli che la pletora sempre crescente degli astrologi definisce una cuspide pesci/ariete. Sfogliando una rivista specializzata nella delineazione delle caratteristiche dei segni zodiacali avevo appreso che quelli come me sono definiti arieti atipici, più insicuri e vulnerabili degli interpreti autentici del segno. L’ariete passa per essere il segno zodiacale di chi è convinto, o si illude, di poter abbattere i muri a testate, affrontando i problemi di petto, senza indietreggiare mai. Niente di più lontano da me!
Non ho mai creduto agli oroscopi ma in quella definizione di fratello minore, un po’ tremebondo, del puro ariete mi ci ritrovo abbastanza.
Ma torniamo a noi! Quel ventuno marzo è stampato nella mia memoria perché una bellissima donna, anche lei come me sulla trentina, varcò con passo regale la soglia dello studio, dopo avere preso un regolare appuntamento a nome Valentina Mercalli.
Aveva due occhi da pantera, accesi dal sacro fuoco della sicurezza in sé stessa, che sembravano capaci di penetrare i segreti della mia anima con una specie di endoscopia psichica. Confesso che mi sentii intimidito da quelle occhiate soverchianti. In fondo ne so qualcosa di donne brave a sottomettere gli uomini.
Percorse la decina di metri che separavano la porta d’ingresso dall’uscio della mia stanza, lasciando dietro di sé una scia di profumo che mi parve di riconoscere. Era l’Organza de Givenchy. Un profumo che adorava anche la mia Claudia, forse perché costosissimo.
Si sedette davanti alla mia scrivania, ancor prima di essere invitata a farlo. Sembrava pronta a sbranarmi, forse per il mio aspetto da bambino, senza neppure un accenno di barba. Scostai la solita ciocca di capelli biondi che mi cadeva davanti all’occhio destro, per guardarla meglio.
Lei ricambiò lo sguardo, fissandomi con due occhi che scintillavano di fermezza.
«Avvocato Mayer! Un’amica mi ha parlato molto bene di lei. Io adoro la competenza. Se ne intende di maltrattamenti?».
Mi sentii rinfrancato. I sociologi non ne sarebbero stati contenti, ma non sarebbero bastate le dita di due persone per contare i maschi feroci che difendevo nelle aule di tribunale.
Sorrisi, sicuro di me. «Lei non sa quanto, signora. Purtroppo oggi gli uomini tendono a non accettare un no come risposta. Vedono la donna come un oggetto, come un giocattolo, che quando non risponde ai comandi merita di essere buttato nella spazzatura. Peccato che siano così poche le donne che trovano la forza di denunciare…».
La signora Mercalli mi intimò l’ALT, sollevando la mano, con la prontezza di un vigile urbano. «Avvocato, non ci siamo capiti. Sono io l’imputata. Mio marito mi ha querelato per maltrattamenti!».
«Oh, perbacco». Commentai goffamente, sobbalzando sulla sedia.
La cliente non disse una parola e posò sulla mia scrivania di legno laccato un fascicolo strabordante di carte, stretto in una rigida copertina rossa.
«È stata fissata l’udienza preliminare, la chiamate così, vero? Sarà tra due mesi. Confermo di avere fatto ciascuna delle cose che mi imputano, anche se a fin di bene. Mio marito è un perdente e invece di affrontarmi faccia a faccia, come io speravo che avvenisse, da codardo ha preferito andare in polizia».
Strinsi le labbra. «Signora, la ringrazio della sua sincerità. Non è facile trovare persone intellettualmente oneste come lei».
Quelle parole piacquero alla signora e la fecero sentire autorizzata ad osare molto. Mi squadrò con occhi che fiammeggiavano come punti esclamativi. «Due cose devo dirle, avvocato: non voglio risarcirlo e trovare accordi con lui, non uscirebbe più dalla sua codardia; secondo, non voglio essere condannata. Non me lo posso permettere. Sono una manager. La mia fedina penale deve risultare pulita».
Quella sortita mi piacque molto meno della precedente. La occhieggiai con lo sguardo più sornione di cui ero capace. «Signora, lei mi chiede molto».
«Lo so».
“Lo sa” rimuginai preoccupato. Per quanto mi ripetessi ossessivamente che la professione di avvocato implica l’assunzione di un obbligo di mezzi e non di risultato, vale a dire che ciò che conta è profondere il massimo impegno e non già vincere il processo, credo di non averci mai creduto davvero. Si è mai visto un cliente contento di pagare per perdere una causa?
Afferrai un foglio, per annotare degli appunti. «Signora Mercalli, posso chiederle che cosa intende esattamente quando dice che suo marito è un perdente? Non è una pura curiosità. Glielo chiedo per comprendere meglio i fatti».
La Signora non ebbe problemi a rispondere. «Mio marito ha perso il lavoro e si è fatto distruggere dalla depressione. Si è chiuso in casa e non sono riuscita a scuoterlo».
«Capisco. Tuttavia…».
«C’è di peggio. Una sera mi ha detto una frase che mi ha fatto riflettere, tanto che mi sono chiesta se avevo sposato un uomo o la mia futura badante».
La inquadrai nel mirino dei miei occhi, con aria severa. «Cosa intende dire? Che cosa le ha detto suo marito di tanto terribile?».
«Mi ha fatto una proposta assurda. Mi ha detto: “Visto che tu sei una donna di successo e guadagni bene, io potrei stare a casa e occuparmi dei bambini. Così risparmieremmo i soldi della colf”». La donna mi trafisse con due occhi luciferini, da belva famelica. «Avvocato, si rende conto? Un marito che fa la tata dei suoi stessi figli! È stato allora che ho pensato di lasciarlo, ma ho commesso l’errore di ripensarci e di stargli accanto, per spronarlo a tornare sé stesso».
«Capisco». Bisbigliai, anche se non comprendevo affatto ed anzi ero scosso da un fremito di simpatia per quello sconosciuto. Provai un certo turbamento nel pormi la fatidica domanda: Claudia mi vede come un vero uomo o come un gattino da salotto capace solo di fare le fusa?
La Signora Mercalli afferrò il libretto degli assegni, con una frenesia quasi isterica. «Avvocato, adesso la lascio, così può studiare le carte. Le riconosco un fondo spese di cinquemila euro! Non dica una parola, è giusto così!».
Vidi quel prezioso rettangolo di carta scintillare tra le mani della cliente e pensai: “Se dico una sola parola non sono un uomo, ma un poveraccio destinato a fare da tata ai propri stessi figli!”.
Afferrai quel piccolo tesoro con decisione, posto che qualsiasi forma di esitazione sarebbe stata vista dalla Signora Mercalli come una disdicevole prova di debolezza.
«Grazie, signora». Sibilai, ma subito me ne pentii pensando che forse la gentilezza non sarebbe stata intesa dalla munifica cliente come una prova di virilità.
La donna scattò in piedi e si avviò verso la porta, con passo deciso. «Buon lavoro avvocato. Non perda tempo a contestare i fatti che leggerà. Ho fatto ogni cosa che mi viene addebitata, anche se solo per amore. Pensi solo a farmela passare liscia!».
Sul pianerottolo, in attesa dell’ascensore, Valentina Mercalli mi lanciò un’ultima occhiata. «Lei mi piace, avvocato Mayer. Si vede che è un vincente!».
«Da cosa lo deduce?».
«Da come mi ha tolto l’assegno di mano. L’ho apprezzato molto. Nessuno vorrebbe farsi difendere da un perdente!».
Credo che il mio volto, in quell’istante, avesse disegnato un ghigno di soddisfazione. L’ascensore partì e io me ne dispiacqui. Avrei voluto che quello stato di grazia personale si protraesse all’infinito.
E subito la mia mente elaborò un pensiero che sapeva tanto di riscatto: “Claudia, per una volta non sarai tu a decidere come si festeggia il mio compleanno. Io decido che si va all’eritreo, a mangiare con le mani e a spendere quaranta euro in due. Alla faccia dei cinquemila che ho messo in tasca oggi!”.
Il pomeriggio successivo mi impegnai in una curiosa e scientifica disamina del fascicolo affidatomi dalla Signora Mercalli e mi concentrai sul profilo Facebook del Signor Luca Benedetti, marito della mia cliente e vittima di quel supposto reato di maltrattamenti, cui era dedicato un dossier di almeno venti pagine. Non ho mai amato i social e ho sempre pensato che costituissero una potente arma per attentare all’integrità morale e alla dignità delle persone, ma per lavoro ero costretto ad occuparmene spesso.
Quanto lessi mi confermò in questo amaro convincimento. La mia cliente aveva pubblicato, con inquietante ripetitività, sulla bacheca del marito, accessibile a circa cinquecento utenti, una infinità di post denigratori, quasi tutti infarciti dalle parole “senza palle”. Si andava da “Ciao senza palle, ma che bella brioche che ti stai mangiando, chissà come lavorerai bene oggi…che bello non avere niente da fare mentre gli altri lavorano, vero senza palle?” a “Ciao senza palle, grazie per i soldi che porti a casa, sono talmente tanti che dovremo costruire la vasca di zio Paperone… Bello non fare niente, vero? Ah, dimenticavo, caro senza palle: che cosa faresti se ti licenziassi come marito?”.
“Caspita” pensai “la signora ci è andata giù pesante. Infatti viene contestato anche il reato di diffamazione”.
E non era tutto. Dalle spontanee dichiarazioni di una nutrita serie di amici di famiglia, risultava che ai ritrovi di gruppo il sabato sera Valentina Mercalli si rivolgesse al marito chiamandolo pubblicamente “fallito”. Alla sua audizione in polizia il povero marito era scoppiato in lacrime, c’era scritto nel verbale, dopo avere riferito che al mattino la moglie era solita salutarlo con parole non esattamente affettuose, mentre spalancava la finestra della camera in cui lui dormiva su un divano: “Ciao perdente, da chi hai intenzione di farti mettere i piedi in testa oggi?”. Poi in cucina, sotto la tazza di tè, gli faceva trovare non già la tovaglietta della colazione, bensì un poster provocatorio con la gigantografia del simbolo del dollaro.
Sollevai lo sguardo dalle carte e pensai: “Semplicemente agghiacciante”.
Avevo appena chiuso il faldone, un po’ divertito, confesso, e un po’ sconcertato, quando sentii suonare alla porta.
Sull’uscio si materializzò un giovane magro e pallido, con gli occhiali da pilota calati fin sulla punta del naso. «Avvocato, mi scusi». Esordì ansimante. «Non ho un appuntamento. Se vuole torno un’altra volta».
Mi colpì la sua gentilezza. «Prego, si accomodi. Posso sapere il suo nome?».
«Sono Luca Benedetti». Bisbigliò con timidezza. «Il marito della sua cliente Valentina Mercalli».
«Ah».
«Mi deve scusare l’intrusione, ma non ce la faccio più a stare da solo. Ho bisogno di lei, di mia moglie. Voglio ritirare la querela. Mi dia un foglio, mi fido di lei, firmo anche in bianco».
Spalancai gli occhi, stupefatto. «Caro signore, le suggerirei di non avere troppa fretta, ma di riflettere bene. Sono scelte gravi. Perché non mi fa contattare da un suo avvocato?».
Lui agitò le mani, atterrito. «Ma quale avvocato! Io non voglio processi. Io rivoglio mia moglie. Ho bisogno di lei. Mi dia un foglio da firmare, per favore. Ritiro la querela e così finisce tutto».
«Purtroppo no, caro signore. Per la diffamazione basta ritirare la querela. Ma il reato di maltrattamenti è giudicato molto grave dalla nostra legge. Lei può anche rimettere la querela, ma il processo andrà avanti comunque».
«Oddio, no!».
«Si calmi. Vuole sedersi?».
Lui rifletté un istante, rimanendo in piedi. «E se io dichiarassi che è tutto falso quello che ho scritto nella querela?».
«Se lei lo facesse davvero rischierebbe un’imputazione per calunnia. È il reato che commette chi accusa falsamente un’altra persona di un reato».
«E che pena rischia chi è accusato di calunnia?».
«Da tre a dieci anni di carcere…ma non si allarmi, la prego. Si accomodi».
«Ah no». Disse l’uomo, con aria fattasi d’improvviso risoluta. «Corro in polizia a ritirare la querela. Poi valuterò i passi successivi per evitare guai a mia moglie». Dopo un cenno di saluto corse sul pianerottolo. Prima di scendere la prima rampa di scale mi rivolse un’occhiata accorata. «Per favore, avvocato, vedo che lei è una brava persona. Lo dica a mia moglie che ritiro la querela e che l’aspetto a casa. Le dica che sono molto pentito».
«Lo farò». Feci in tempo a rispondergli, prima che l’uomo scomparisse nella penombra.
Rimasto da solo pensai, con smarrimento, a quanto sono fragili gli equilibri su cui si regge la nostra precaria esistenza. A volte spezzare le catene che ci tengono prigionieri e lottare per la nostra libertà di pensiero finisce per farci precipitare in un angosciante vuoto, più che elevarci verso un’esistenza autenticamente migliore.
Mi parve giusto avvertire la mia cliente dell’irruzione di suo marito nello studio. La chiamai e lei ascoltò il mio racconto in religioso silenzio. Poi pretese di essere ricevuta in studio quel giorno stesso, alle ventuno. «Prima non posso. Abbiamo una riunione del consiglio direttivo e devo illustrare l’aumento di fatturato dell’ultimo anno». Fui sul punto di rifiutare, per non perdere la partita di coppa del Milan, la mia squadra del cuore. Ma poi ricordai quel magico rettangolo di carta a quattro cifre che le avevo tolto di mano e mi convinsi: l’avrei ricevuta.
Quando mise piede nella mia stanza, la signora aveva lo sguardo belligerante dell’amazzone. «La remissione della querela porrebbe fine al processo?».
«No, signora. Come ho detto a suo marito il reato di maltrattamenti è procedibile d’ufficio».
Lei scosse la testa, con uno scatto deciso. «E allora non mi interessa. Altre soluzioni per uscirne con la fedina penale pulita?».
«Cara signora, non lo veda come un pronostico…ma da un processo si può anche uscire assolti».
«Probabilità di essere assolta?».
Feci una smorfia perplessa. «Non molte. I fatti sono quasi tutti documentati e a favore di suo marito c’è un buon numero di testimoni».
La testa della signora Mercalli si mosse da destra a sinistra e nel senso opposto, con maggior vigore di prima. «Allora la difesa nel processo non è la strada giusta. Altre possibilità di uscirne pulita?».
Piegai il busto in avanti. «Ci sarebbe la possibilità di patteggiare una pena di due anni. La pena sarebbe sospesa, cioè non eseguita, e la sua fedina penale resterebbe pulita e tre anni dopo la definitività della sentenza di condanna lei potrebbe ottenere la totale riabilitazione, dimostrando di non avere nel frattempo commesso altri reati. Ma in questo caso lei avrebbe l’obbligo di affrontare un percorso di recupero presso un centro antiviolenza accreditato».
Lei mi scrutò, con diffidenza. «Avrei a che fare con preti? Devo avvertirla che li detesto tutti».
«No, signora. Avrebbe a che fare con educatori».
Lei estrasse una stilografica dalla borsetta e la impugnò con decisione. Mi illusi che si apprestasse a compilare un altro assegno, ma la mia speranza svanì presto «Procediamo col patteggiamento, subito! Mi dia tutte le carte da firmare non voglio disturbarla oltre!».
Provai un fremito di delusione: denaro facile che evaporava. Ma mi consolai pensando che avrei visto il secondo tempo della partita.
Rividi la Signora Mercalli quattro mesi dopo, al rientro da un pranzo di lavoro.
Sbarcai dall’ascensore e me la trovai davanti, con una sigaretta accesa tra le dita e la solita postura militare. Era la prima volta che si presentava alla porta dello studio senza un appuntamento.
Mi salutò con un insolito sorriso, che aveva persino qualcosa di materno. «Buongiorno, avvocato Mayer, le abbiamo fatto una sorpresa». Allora mi accorsi che c’era una terza persona sul pianerottolo, affacciata alla finestra che dava sul cortile.
Quando girò lo sguardo nella mia direzione lo riconobbi: era Luca Benedetti, il magro e allampanato marito della mia cliente. Non indossava gli occhialoni da pilota e mostrava un volto sereno, assai diverso da quello addolorato e febbrile d’ansia del nostro primo incontro.
Mi sorpresi alquanto nel vedere insieme la vittima e il suo carnefice.
Non ho mai amato particolarmente le sorprese, specie da parte dei clienti e in orario di lavoro, e feci loro, con la mano, un nervoso invito a seguirmi all’interno dello studio. «Ho alcune scadenze impegnative» sentii il dovere di precisare, per contenere quanto più possibile la loro permanenza in studio «Posso dedicarvi solo pochi minuti».
«Basteranno» replicò decisa la mia cliente.
Quando si furono seduti all’altro capo della mia scrivania, li sbirciai con aria interrogativa. «Non avrei mai pensato di vedervi assieme. Qual è il motivo della vostra visita? Forse tra voi è cambiato qualcosa?».
«È cambiato tutto». Rispose Luca Benedetti, con espressione raggiante, mentre scambiava uno sguardo d’intesa con la mia cliente e le prendeva una mano con delicatezza. «Ci siamo rimessi insieme. Vogliamo festeggiare con gli amici la nostra riconciliazione. Abbiamo organizzato una cena nel ristorante in cui abbiamo festeggiato il nostro matrimonio. Volevamo invitare anche lei, avvocato, e anche il prete che ha celebrato le nostre nozze».
Mi venne da ridere, non so perché, e ancora oggi non so come feci a trattenermi. «Molto bene…ma che bravi…allora vi siete perdonati reciprocamente!». Sentii l’esigenza di congratularmi con loro, anche se non avrei saputo dirne la ragione, mentre il mio cervello elaborava un interrogativo: “Avrò mai a che fare qui dentro con una persona normale di cervello?”.
L’uomo aveva spalancato gli occhi, nell’espressione ingenua di un bambino felice. «Certo che l’ho perdonata. La depressione mi aveva fatto precipitare in un pozzo nero senza fondo. Lei ha provato a scuotermi in ogni modo. Finché ha deciso di usare la terapia d’urto. Ci siamo chiariti e io sono guarito. Non è vero che mi riteneva un perdente, voleva solo mettermi spalle al muro, perché mi decidessi a reagire e a riprendere in mano la mia vita».
Annuii con un mezzo sorriso e mi rivolsi alla mia cliente. «Sono felice per voi».
Lei si decise a spegnere la sigaretta nel mio portacenere. «L’esperienza al centro antiviolenza mi ha cambiato la vita, avvocato. Mi sono vista circondata da gente senza scrupoli di coscienza…uomini violenti, insensibili, con lo sguardo della belva. Quegli sguardi mi facevano sentire violata nella mia intimità. Li ho visti come un becero esempio di falsa virilità». Accarezzò la mano di suo marito, deviando lo sguardo di lato. «Adesso non rinuncerei per niente al mondo all’affetto del mio adorato micino».
«Neanche io, miciona».
Mi ritrovai ad annuire, con aria pensosa. “I centri antiviolenza dovrebbero migliorare le persone offrendo modelli positivi di comportamento” riflettei “In questo caso hanno raggiunto l’obiettivo mostrando il peggio”.
Maltrattamenti
“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato“.
Il capo IV del titolo VII del libro secondo del codice penale, avente ad oggetto la repressione dei delitti contro l’assistenza familiare, prevede e punisce reati contraddistinti dal fatto che l’offesa viene originata all’interno del gruppo familiare, a salvaguardia del legame giuridico tra persone appartenenti alla stessa famiglia o legate da un vincolo ad essa assimilabile.
I maltrattamenti in famiglia sono sussumibili nella categoria dei reati propri, in quanto la fattispecie criminosa può essere commessa solamente da persone avvinte da un particolare rapporto (di parentela e/o di convivenza, ovvero di affidamento per le ragioni indicate nella norma) col soggetto passivo.
La ratio ispiratrice della disposizione si incentra sull’esigenza di proteggere da qualsiasi forma di sopraffazione gli stabili vincoli affettivi. I suddetti vincoli possono discendere, oltre che da un rapporto familiare, anche da un rapporto di autorità, derivante dallo svolgimento di una professione, di un’arte ovvero da rapporti di cura e di custodia. Tuttavia è bene dire che la quasi totalità dei reati in parola registrati nella pratica forense sono da ricondurre all’alveo familiare e a prepotenze/violenze ed abusi perpetrati a danno dei figli ovvero del coniuge (queste condotte sopraffattrici, al pari della violenza di genere, rappresentano oggi motivo di vero e proprio allarme sociale).
Il delitto di maltrattamenti è un reato abituale, caratterizzato da condotte vessatorie sistematiche di per sé, in rari casi, persino astrattamente in parte lecite, ma che assumono carattere illecito in ragione del loro protrarsi e del loro fondersi in unità. Le condotte possono essere sia commissive sia omissive (nel caso sussistano, a tale ultimo proposito, in capo al soggetto omittente dei doveri di protezione).
Il dolo è generico, e consiste nella coscienza e volontà di infliggere una serie di sofferenze alla vittima.
La norma punisce le condotte, reiterate nel tempo, che siano volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro, oppure degradanti, fisicamente o moralmente, realizzate nei confronti di una persona della famiglia, di un convivente, o di una persona che sia sottoposta all’autorità del soggetto agente o sia a lui affidata.
La norma in esame si inserisce nell’alveo della tutela dei soggetti vulnerabili, termine con cui si fa riferimento a quelle situazioni in cui la vittima, per la propria inferiorità fisica psichica o sociale, non ha altra scelta se non cedere all’abuso. Il legislatore italiano, infatti, in seguito alla ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007 ha accordato una sempre maggiore tutela a tali endemiche condizioni di fragilità.
Proprio in quest’ottica, l’attuale tenore letterale dell’art. 572 del c.p. è il risultato di diversi interventi normativi succedutisi nel tempo, primo tra tutti la riforma attuata con la l. n. 172/2012, la quale, non solo ne ha modificato la rubrica che prima faceva riferimento ai “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, ma ha anche inserito tra i possibili soggetti passivi del reato chiunque conviva con il soggetto agente.
La fattispecie in esame è stata, da ultimo, modificata dalla l. n. 69/2019, cd. Codice Rosso, che, nell’ottica del più efficace contrasto di episodi di violenza domestica, ne ha inasprito il quadro sanzionatorio, sia con riferimento alla fattispecie base di cui al comma 1, sia prevedendo, al comma 2, nuove circostanze aggravanti. Con la stessa legge il legislatore ha, altresì, previsto, all’ultimo comma, che il minore che assista ai maltrattamenti sia considerato persona offesa dal reato.
Il reato di maltrattamenti in famiglia è procedibile d’ufficio. Tale procedibilità pone l’azione giudiziaria al riparo dalla non infrequente ipotesi che la vittima, per lo stato di terrore in lei incusso dal carnefice, decida di rimettere la querela a suo tempo sporta per puro terrore di nuove violenze.
Essendo la pena massima prevista per tale odioso reato pari ad anni sette, è da escludersi, per l’imputato, la possibilità di chiedere prima dell’apertura del dibattimento la sospensione del processo con la messa alla prova (in vista dell’estinzione del reato per esito positivo della prova medesima).
Con la riforma del 2014, che ha mutuato l’istituto della messa alla prova dal processo minorile per estenderlo a quello ordinario a carico di imputati maggiorenni, si è infatti previsto che condizione per accedere al beneficio sia il fatto che si proceda per un reato punito con pena massima non superiore ad anni quattro (tale limite è destinato tuttavia ad essere innalzato a sei anni in relazione a fattispecie “che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto”, come previsto dalla c.d. riforma Cartabia).
In caso di patteggiamento subordinato alla concessione della sospensione condizionale della pena, non serve che nell’accordo sia esplicitato il consenso dell’imputato ad adempiere alla condizione che la legge impone automaticamente per godere del beneficio. Come l’obbligo di seguire specifici percorsi di recupero previsto per chi si sia macchiato del reato di maltrattamenti in famiglia. La concessione della sospensione condizionale nel caso di condanna per i reati indicati al comma 5 dell’articolo 165 del Codice penale è forzatamente subordinata all’adempimento della condizione imposta dalla legge. Il giudice non può quindi in via generale negare la sospensione della pena per l’assenza di un esplicito consenso al programma di recupero, in quanto la legge non lo richiede, ma impone solo che si realizzi da parte del condannato l’adempimento imposto.
Diffamazione
Ai sensi dell’art. 595 c.p. commette il reato di diffamazione colui che comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. La pena massima stabilita è pari ad un anno di reclusione o, in alternativa, a 1.032 euro di multa. Il reato di diffamazione, per la sua perpetrazione, presuppone l’assenza della persona offesa. Per assenza della persona offesa deve intendersi non solo la sua fisica lontananza dal luogo del fatto ma, altresì, l’impossibilità oggettiva della vittima, pur materialmente presente, di percepire l’offesa. L’incipit della norma (“fuori dei casi indicati dall’articolo precedente”) eccettua la configurabilità dell’ingiuria, che, viceversa, implica la presenza fisica della vittima e la concreta percezione dell’offesa da parte di quest’ultima. Va però detto che l’ingiuria è stata depenalizzata e pertanto non costituisce più reato.
La diffamazione è un reato di evento e pertanto si consuma nel tempo e nel luogo in cui l’offesa della reputazione del soggetto passivo del reato è percepita dalle persone terze cui si è rivolto il reo.
In che modo si commette il reato?
In ogni modo e con qualsiasi mezzo, anche in forma omissiva. Perciò possiamo dire che il reato di cui trattiamo è “a forma libera”. Ciò significa che la condotta criminosa può indifferentemente consistere in un discorso pronunciato oralmente, in uno scritto, in un disegno finalizzato alla derisione della vittima (si pensi al disegno di una botte per porre in ridicolo le dimensioni fisiche della vittima del reato), con l’esposizione di foto e anche a mezzo di segni (si pensi al segno delle corna fatto in pubblico alle spalle della vittima, senza che costui sia in grado di percepire l’offesa, con allusione evidente alle asserite infedeltà coniugali patite da costui).
Quante persone devono percepire la comunicazione lesiva dell’altrui reputazione perché possa dirsi consumato il reato di diffamazione?
La norma si esprime nei seguenti termini: “comunicando con più persone”. È evidente che la comunicazione non possa essere rivolta ad una sola persona poiché mancherebbe il requisito della pluralità dei destinatari e dunque l’evento della derisione pubblica, sola suscettibile di provocare la lesione della reputazione della vittima del reato.
Le persone con cui il reo comunica devono essere, pertanto, almeno due. Tuttavia si ritiene che il reato sia da intendersi consumato anche nell’ipotesi che l’autore del reato comunichi l’espressione lesiva dell’altrui reputazione ad una sola persona, affinché quest’ultima diffonda la voce ad altre persone.
Che cosa si intende per reputazione?
Per reputazione si intende la credibilità altrui all’interno di un gruppo sociale, ovvero l’altrui possesso di qualità morali che contraddistinguono una persona degna di rispetto.
Si commette reato di diffamazione comunicando a terze persone una notizia vera sul conto della vittima?
La risposta è affermativa. Si commette il reato anche se il fatto diffamatorio risulti vero, allorché il fatto medesimo non sia riportato con obiettività, ovvero se nella comunicazione del fatto si siano travalicati i limiti del rispetto personale della vittima, anche con l’uso gratuito di espressioni eccessivamente crude. Si commette il reato altresì quando la notizia, in sé stessa vera, sia diffusa in modo insinuante o manipolatorio ovvero in violazione della privacy.
Perché la diffamazione è un fatto più grave dell’ingiuria?
Perché la fisica assenza della vittima, ovvero la sua oggettiva e materiale impossibilità di percepire l’offesa, rende la vittima stessa impossibilitata a difendersi, negando il fatto o dimostrando l’infondatezza dell’asserzione diffamatoria.
Il reato di diffamazione è procedibile d’ufficio?
La risposta è negativa. La procedibilità dell’azione penale, nel caso di reato di diffamazione, è rimessa alla volontà della vittima di chiedere la punizione del colpevole a mezzo di presentazione di atto formale di querela nel termine di tre mesi dalla conoscenza del fatto. Si ricorda che una querela, per essere ritenuta valida ed esplicativa degli effetti tipici della notizia di reato, deve essere sporta dalla vittima del reato e deve contenere una inequivoca manifestazione di volontà, da parte del querelante, che si proceda penalmente a carico di tutti coloro che risultino autori e/o coautori del fatto incriminato. Ciò perché la lesione della reputazione è danno definibile come grave e meritevole di sanzione penale solo dal diretto interessato in concreto e non già in generale e da persone estranee.
Quali sono le aggravanti della diffamazione?
- Il secondo comma dell’art. 595 c.p. prevede che la pena della reclusione sia fino a due anni e quella della multa a fino a 2.065 Euro se l’offesa consiste nell’attribuzione alla vittima di un fatto determinato.
Si tratta di un’aggravante che punisce la diffamazione perpetrata in modo da risultare particolarmente credibile e dunque potenzialmente idonea ad arrecare un più grave danno alla reputazione della vittima.
In effetti l’attribuzione a chicchessia di un fatto specifico, circostanziato e compiutamente definito nel tempo e nello spazio induce il pubblico a credere nella veridicità dell’informazione. Viceversa, quando trattasi di voci riferite genericamente e non relative a fatti specifici si è maggiormente portati a credere che l’offesa sia indimostrata, infondata e non proveniente da una fonte di cui sia difficile apprezzare l’affidabilità.
- Il terzo comma dell’art. 595 c.p. prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a Euro 516, allorché l’offesa sia recata con il mezzo della stampa, o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico.
L’aggravante suddetta comporta un significativo e apprezzabile inasprimento della pena allorché l’offesa sia comunicata pubblicamente ad una, spesso indefinita, moltitudine di soggetto a causa della sua divulgazione erga omnes.
Non vi sono dubbi circa il fatto che una lesione della reputazione fatta ad uno sterminato pubblico di uditori sia particolarmente odiosa e suscettibile di recare alla vittima un danno d’immagine pressoché irreparabile. Ciò anche alla luce del fatto che, in caso di asserzioni di cui sia possibile dimostrare la falsità, potrebbe risultare in concreto impossibile far pervenire a tutte le persone coinvolte una puntuale rettifica.
Ricade sotto la disciplina del suddetto terzo comma anche la diffamazione fatta a mezzo del web, con post sui social media, ovvero a mezzo di commenti in seno a blog o a siti internet, o all’interno di gruppi on line o di forum o ancora a mezzo di articoli pubblicati on line.
L’aggravamento della pena si applica a tutti i mezzi di pubblicità, inclusi i social network.
- L’ultimo comma della suddetta norma incriminatrice prevede un generico aumento della pena base nel caso in cui l’offesa sia recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o a una sua rappresentanza o a una Autorità costituita in collegio.
Quali sono le scriminanti del reato di diffamazione?
- Il legittimo esercizio del diritto di cronaca, di critica e di satira, a patto che siano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza. Nel caso di esercizio del diritto di cronaca il reato è scriminato altresì alla luce dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia.
Con il termine verità s’intende, all’evidenza, l’aderenza obiettiva della narrazione alla storicità del fatto.
Col termine continenza si intende una proporzione tra oggetto dell’esposizione e gravità dei termini usati. A mero titolo esemplificativo, nella cronaca di una partita di calcio risulterà inopportuno definire “meritevole di pena detentiva” oppure “criminale” l’errore dell’attaccante a pochi metri dalla porta avversaria. Tali espressioni, se usate, apparirebbero carenti del requisito della continenza (ovvero del senso della misura).
Col termine pertinenza si intende la riconducibilità delle espressioni usate all’oggetto della materia trattata, senza divagazioni o sconfinamenti. In altre parole l’esposizione di fatti e apprezzamenti potenzialmente diffamatori deve risultare necessario o quantomeno utile alla miglior trattazione dell’argomento affrontato, senza scadere nel gratuito dileggio.
- Ex art. 598 c.p. qualora le offese siano contenuti negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinnanzi alla autorità giudiziaria, ovvero dinnanzi ad una autorità amministrativa, qualora le offese concernano l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo.
È pertanto consentito, in cause pendenti innanzi all’autorità giudiziaria, fare esercizio di vis polemica anche rude e pungente, ai limiti della messa in ridicolo e derisione delle altrui argomentazioni e pretese, sempre che non si straripi nella gratuita denigrazione, non attinente ai fatti di causa.
Si pensi ad una memoria difensiva, redatta e depositata da un procuratore costituito che, in una causa avente ad oggetto l’inadempimento di una obbligazione nascente in capo all’appaltatore da un contratto d’appalto, sia infarcita di insinuazioni offensive circa la condotta di vita della persona fisica dell’appaltante, senza alcuna attinenza ai fatti dedotti ad oggetto dell’azione legale.
L’avvocato diligente sarà attento a non sconfinare nell’insulto fine a sé stesso ma a contenere le proprie argomentazioni nel solco dell’oggetto della causa.
- Ex art. 599 c.p. nel caso in cui la diffamazione costituisca la reazione ad una provocazione.