Diritto Penale e dell’esecuzione Penale
Un bicchiere di troppo
Pietro Morini era un vicino di casa mio e di Claudia.
Quarant’anni, fisico compatto e muscoloso, la sua immagine aveva conosciuto ai miei occhi una tanto radicale quanto inquietante metamorfosi.
All’inizio il Signor Pietro mi era apparso una persona gioviale e alla mano. M’imbattevo in lui sulla soglia del portone condominiale, la domenica mattina, quando le campane della chiesa parrocchiale invitavano alla messa delle undici.
Lo vedevo con il corriere della sera sotto il braccio e Bobby, il suo golden retriever, al guinzaglio.
Talvolta lo incrociavo lungo le buie scale del palazzo, mentre canticchiava al fianco dei figli, due ragazzini sorridenti e vivaci, e della moglie, una signora un po’ petulante e sempre con il cellulare all’orecchio. Allora capitava che ci intrattenessimo in qualche battuta calcistica da bar, visto che io ero tifosissimo del Milan e lui interista abbonato da quindici anni al terzo anello rosso.
Poi le cose erano cambiate in modo inspiegabile.
Lo si vedeva arrancare lungo le scale, aggrappato al corrimano, ansimante, paonazzo, con lo sguardo fisso e l’alito vinoso. Una volta, senza ragione, mi aveva persino abbracciato gridandomi in faccia. «Se rinasco, voglio rinascere interista come te, fratello mio!». Avevo fatto fatica a liberarmi dalla sua stretta.
Quella del secondo piano ammezzato si era addirittura lamentata con il portinaio. Sosteneva che Morini avrebbe tentato di baciarla, mentre erano chiusi in ascensore.
Claudia, quando lo vedeva, si esibiva nelle più clamorose smorfie di disprezzo. Lo definiva “l’ubriacone del palazzo” e mi invitava ad ignorarlo e a non rivolgergli la parola per nessuna ragione, campionato di calcio compreso.
La moglie e i figli si erano trasferiti dai genitori di lei e lui viveva barricato in casa con la musica a palla, tanto da meritarsi gli improperi di tutti i vicini, che minacciavano di far intervenire la polizia.
Me lo ritrovai in studio nel tardo pomeriggio di un rovente venerdì di fine giugno. Aveva gli occhi vitrei, fissi e inespressivi, e il volto triangolare con le guance scavate, pietrificato dal dolore.
Appoggiò sulla mia scrivania di massello dieci fogli pinzati l’uno all’altro. Si trattava di una sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dalla seconda sezione penale del Tribunale di Milano. La decisione metteva i brividi: cinque anni e sei mesi di pena detentiva, quindi ben oltre la soglia dei quattro anni per avere l’affidamento in prova al servizio sociale ed evitare il carcere. Per il povero Pietro Morini, dunque, stavano per aprirsi le porte delle patrie galere.
«Sono finito, avvocato Mayer».
Scossi la testa con vigore, davanti ad un esordio tanto angosciante. «Non dica così. Sono passati da secoli i tempi delle esecuzioni di piazza e delle torture. C’è sempre qualcosa da fare».
Morini si morse un labbro. «Il mio avvocato mi ha chiesto diecimila euro per fare l’appello. Non li avevo, neppure la metà. Dopo quella notte di follia sono stato licenziato. Non potevo neppure avere il patrocinio a spese dello stato. Così, addio all’appello!».
Esaminai il primo foglio e constatai con sgomento che la sentenza era passata in giudicato e ormai pienamente esecutiva. Quindi, da un giorno all’altro, sarebbe stato eseguito, ai danni del mio vicino, un ordine di esecuzione della pena. Fui sul punto di consigliargli di costituirsi presso il carcere di Bollate, per godere del miglior trattamento penitenziario possibile, ma frenai i miei impulsi, ritenendo preferibile sottoporre la questione ad un più attento approfondimento.
I muscoli del viso del mio nuovo cliente si contrassero, d’improvviso, in uno spasmo doloroso. «Mi vergogno molto di ciò che ho fatto. Sono stato un folle. La prego, mi risparmi di raccontarle ciò che è accaduto. Legga la sentenza con calma e poi mi chiami per decidere i passi successivi». Le sue guance si arrossarono e quel senso di vergogna gli valsero la mia solidarietà.
Annuii, con un sorriso complice. «D’accordo».
Morini percorse il corridoio senza guardarmi e mi salutò senza parlare, solo con una stretta di mano. Mi morì in gola un apprezzamento sull’Inter campione d’Italia, che sarebbe di sicuro sembrato fuori luogo, e rimasi in silenzio.
Rientrato nella mia stanza, decisi di studiare subito con la massima attenzione quei dieci fogli, un po’ per curiosità, ma in gran parte per sincera empatia. Mi mancavano molto quei simpatici incroci lungo le rampe delle scale condominiali a commentare i più recenti risultati del campionato italiano e delle coppe europee.
Constatai che a Pietro Morini erano stati contestati una miriade di reati: tentato omicidio, resistenza a pubblico ufficiale, guida in stato di ebbrezza e lesioni personali colpose.
Mi concentrai sulla narrazione dei fatti, che era riassunta alle pagine 3 e 4 della sentenza.
Il mio cliente aveva partecipato ad una cena di festeggiamento dei cinquanta anni di fondazione della sua società, bevendo qualche bicchiere di troppo. Al culmine di un alterco verbale, aveva lanciato un coltello contro un collega, ferendolo al volto in modo non grave. Il titolare del ristorante, allarmato, aveva allertato le forze dell’ordine e due carabinieri avevano fatto pronta irruzione nel locale per prevenire un aggravarsi degli episodi di violenza. Morini avrebbe colpito il primo agente con un calcio e il secondo con un violento pugno, prima di precipitarsi in strada e salire a bordo della sua Porsche, parcheggiata proprio davanti all’ingresso del ristorante. Lo avevano visto sgommare via con folle rapidità e percorrere la strada zigzagando, prima di arrestare bruscamente la marcia, ad un semaforo rosso, sfondando la parte posteriore di una vettura ferma allo stop. Il guidatore del veicolo urtato con notevole violenza era miracolosamente sopravvissuto all’impatto, riportando solo la frattura del bacino.
Sollevai gli occhi dai documenti e meditai su quanta fatica gli uomini fanno a garantirsi un’esistenza dignitosa e sull’istante di follia che a volte si rivela sufficiente a devastare un’esistenza e a buttare all’aria il fragile castello di carta del proprio benessere.
Ripresi la lettura con accresciuto interesse.
La difesa tecnica di Morini, nel processo di primo grado, era stata lacunosa e discutibile, a partire dalla scelta incomprensibile di rinunciare allo sconto di pena dell’abbreviato per affrontare il dibattimento con un solo testimone a discarico, peraltro di dubbia attendibilità: la madre dell’imputato.
Il Signor Pietro era stato sentito all’ultima udienza ed aveva dichiarato di essere stato indotto a bere, fino a sprofondare in un vero e proprio stato di ebbrezza, proprio dalla vittima, tale Signor Valle, un collega ambizioso che avrebbe voluto fargli le scarpe, soffiandogli il ruolo di responsabile del marketing. Tuttavia quelle dichiarazioni non erano state suffragate da alcun altro elemento probatorio e a nulla era servita l’audizione della povera e affranta madre. Il difensore dell’imputato aveva anche giocato, senza successo, la carta della temporanea incapacità di intendere e di volere.
Erano ormai le venti quando decisi di tornare a casa, per non far aspettare troppo Claudia ed evitare di trovare, invece della mia fidanzata, una belva furente.
Le parlai di Pietro Morini, seduti al tavolo della cucina, davanti ad un piatto fumante di spaghetti all’amatriciana. La trovavi molto più comprensiva di quanto immaginassi.
«Poveretto». Si lasciò sfuggire. «Deve avere dei problemi. In fondo non si rendeva conto di ciò che faceva. Ma, per la nostra legge, fare le cose sotto l’effetto della droga o dell’alcool non alleggerisce la responsabilità del colpevole?».
«Non è così, amo. Per la nostra legge agire in stato di ebbrezza non porta a una diminuzione della pena, anzi. La pena addirittura aumenta se risulta che il colpevole si è ubriacato allo scopo di allentare i freni inibitori, di trovare il coraggio di commettere il reato».
Claudia portò in tavola una bottiglia di Chianti riserva. «Non credo di essere d’accordo, Ale. Cinque anni e sei mesi per un istante di follia sotto l’effetto dell’alcool mi sembrano troppi».
«Anche a me». Mi versai un bicchiere di vino, mentre un fastidioso pensiero mi rimbalzava nella mente. «L’avvocato gli ha chiesto diecimila euro per l’appello e lui ha preferito mollare il colpo. Non ha tentato neppure di cercare un avvocato più a buon mercato. Una follia. Con l’appello avrebbe potuto ottenere la riduzione della pena di un terzo e rientrare nei quattro anni per l’affidamento in prova ai servizi sociali».
Claudia mi scrutò con attenzione. «Tu cosa avresti fatto? Avresti chiesto diecimila euro per un appello?».
«Ti dico la verità. Per me la storia del penalista che è come un missionario è una grande balla. Però non si abbandona un cliente a metà del guado. Un appello può salvare la vita del tuo cliente. Credo che per lui l’appello sia un diritto che non va negato per vile denaro».
Claudia mi accarezzò i capelli. «Non sei mai stato venale. Anche per questo ti amo».
“Sono costretto ad essere venale quando sogni uno dei tuoi viaggi da ricconi”. Pensai, ma ritenni più conveniente tacere.
Parlai di Pietro Morini anche al mio socio Claudio, il mattino successivo, nel bel mezzo di una delle nostre colazioni a base di cappuccio e diritto.
«Affidamento terapeutico!». Sillabò il mio socio, come se leggesse una sentenza.
Per la sorpresa mi sfuggì di mano la bustina dello zucchero. «Che cosa hai detto?».
«Ho detto: affidamento terapeutico. È ciò che serve al tuo cliente. Perché non lo iscrivi ad un corso di recupero dall’alcolismo? L’affidamento in prova terapeutico è possibile per le pene fino a sei anni, quindi anche per questo signore».
Battei un pugno sul tavolino del bar, meravigliandomi della mia stupidità. «Ma certo! Non so perché non ci ho pensato!».
Mi precipitai in studio, riflettendo sul fatto che gli amici sono davvero la risorsa più preziosa che ciascuno di noi possiede.
Chiamai il cliente, convocandolo in studio per quello stesso pomeriggio. «Ci sono novità importanti. Ho un’idea da sottoporle». Annunciai con voce trionfale.
«Va bene, avvocato. Può anticiparmi qualcosa? La prego, non mi lasci sulle spine».
Rifiutai di fornire ulteriori dettagli, trincerandomi dietro il fatto che la questione fosse troppo delicata per essere trattata al telefono.
Morini si presentò nel mio studio con puntualità svizzera, alle sedici spaccate. Il suo viso era illuminato da un sorriso radioso che testimoniava grandi aspettative e la cosa mi mise alquanto in allarme. Ciò che turba i sonni degli avvocati, oltre alle scadenze, è il timore di inculcare nella mente dei clienti, anche con una sola parola avventata, aspettative infondate e illusioni destinate a naufragare in amarezze.
Lo feci accomodare e gli illustrai, con dovizia di dettagli tecnici, l’opportunità di avviare un percorso terapeutico per trattare l’etilismo, sfruttando la conseguente opportunità di richiedere pene rieducative, alternative alla detenzione.
Lui si irrigidì alquanto, afferrando i braccioli della sua sedia e contraendo la mascella. «Non se ne parla, avvocato!».
«Ma perché? Stia attento a non prendere decisioni affrettate».
Il cliente mi guardò in cagnesco. «Io non sono un alcolizzato. Io ho solo bisogno di mia moglie e dei miei figli».
Cercai di usare l’astuzia. «Quello che le propongo è l’unico modo di evitare il carcere…ed evitare il carcere significa moltiplicare le opportunità di tornare a vivere con sua moglie e i suoi figli».
Pietro Morini non ne voleva sapere. Si sollevò di scatto dalla sedia. «Trovi un altro modo, avvocato. Non ho nessuna intenzione di farmi passare per un ubriacone per la semplice ragione che non lo sono mai stato, non lo sono e non lo sarò mai!».
Lui inseguii lungo il corridoio nella speranza di farlo ragionare, ma non voleva sentire ragioni e fui costretto a desistere.
Dopo che ebbi richiuso la porta dello studio, provai il bisogno di prendere una boccata d’aria, per ossigenare i polmoni, e spalancai la finestra della mia stanza, affacciandomi al davanzale. Spirava una brezza gradevole che mi accarezzava i capelli, scompigliandoli e facendo precipitare il solito ciuffo biondo davanti all’occhio destro.
Pensai che nel mio bagaglio professionale fosse del tutto assente una dote forse imprescindibile per un bravo avvocato: la parola esplosiva, capace di detonare nella mente altrui come dinamite pura. Nel mio vocabolario c’erano troppi condizionali e pochi imperativi, quasi sempre balbettati con timidezza.
Mi venne istintivo ricordare quel tizio che, nonostante le mie inefficaci insistenze, aveva rifiutato di scontare la pena in affidamento in prova al servizio sociale per non sottoporsi alle regole del convento di frati che lo avrebbe ospitato, salvo, mesi dopo, rimproverarmi aspramente di non aver insistito abbastanza, quando ero andato a trovarlo in carcere.
Anche con Claudia mi mancava la parola ferma, implacabile, non negoziabile, cui sempre rinunciavo in favore di fragili compromessi.
Quella sera, a casa, dopo cena, mi ero appisolato sul divano, con i fogli della gazzetta dello sport a farmi da lenzuolo, davanti alla TV accesa su un programma sportivo in cui si dissertava di calciomercato, quando fui destato dallo squillo del cellulare.
Sbirciando il display mi avvidi che il colpevole di quel brusco risveglio era proprio lui: Pietro Morini. Ed ebbi un moto di stizza. Poi decisi di rispondere, al culmine di un impeto di puro masochismo.
Pietro parlava con voce impastata e sembrava emotivamente fuori controllo. «Per favore, raggiungimi subito. Sono in un pub sotto casa di mia moglie. Solo tu puoi impedirmi di fare altre sciocchezze. Se seguo il mio istinto, mi incollo al suo citofono e non stacco il dito fino a quando non accetta di parlarmi».
«Non lo faccia. È una sciocchezza. Si beccherebbe una querela per stalking. Torni a casa. Non peggiori la situazione».
«Pe favore, dammi del tu. Mi sei troppo simpatico».
Ancora oggi non so dire perché accettai. «E va bene! Vieni via subito, capito?».
«Per favore». Blaterò con voce più spenta. «Vieni a trascinarmi via o starò qui finché mi arrestano!».
Non avrei mai pensato di dire di sì in una simile situazione. Invece decisi di entrare in azione. Mi liberai della gazzetta, spensi il televisore e andai in bagno a pettinarmi. Lungo il corridoio incrociai Claudia, in camicia da notte. Mi guardò come se fossi un fantasma. «Ma che cosa fai? Esci a quest’ora? E dove vai?».
Le stampai un bacio in fronte. «Ti spiegherò, amo. Devo impedire che un uomo terrorizzi una donna».
«Allora in bocca al lupo!». Fece lei di rimando e io mi chiesi se avesse bevuto un filtro d’amore, vista la dolcezza e la comprensione che mostrava ultimamente nei miei confronti.
In un quarto d’ora arrivai al pub e, attraverso la vetrata, vidi Pietro Morini riverso sul bancone, con la testa tra le mani. Lo raggiunsi in tutta fretta e il gestore mi parve grato di quella irruzione. «Per favore, lo porti via. Se gli servo un’altra birra questo mi crea dei casini e io non voglio averne!».
Quando sentì la mia mano premere sulla sua spalla, Pietro si sollevò di scatto e mi abbracciò. «E’ ancora valida la tua proposta di recupero dall’etilismo?». Mi sussurrò all’orecchio.
«Ma certo. Vieni domani in studio, così elaboriamo un piano d’azione». E per la prima volta ebbi l’impressione che le mie parole detonassero come dinamite pura.
Rividi Pietro Morini sei mesi dopo che l’avevo accompagnato al centro per l’etilismo, perché non aveva il coraggio di andarci da solo.
Fu un incontro casuale, al portone condominiale. Era una domenica mattina e risuonavano le campane della messa. Aveva il corriere della sera sotto il braccio e Bobby al guinzaglio.
Sua moglie e i suoi figli, vedendolo alquanto migliorato nel carattere e nell’umore, erano tornati a vivere con lui. Il programma terapeutico faceva registrare brillanti miglioramenti. «É tutto merito tuo, Ale. Voglio offrirti una cena in uno splendido ristorante di pesce qui vicino. Ti prego di accettare. Voglio festeggiare con te il ritorno a me stesso».
Accettai e ci accordammo per il sabato seguente.
Claudia mi ricoprì di complimenti per il mio successo umano e professionale e mi incoraggiò ad andare da solo alla cena voluta da Pietro. «Così fate una cosa tra uomini e Pietro non spende un capitale. Io chiamerò Fabrizia, per una partita a carte».
Il ristorante di pesce scelto da Pietro luccicava di eleganza in un’opulenza di cristalli addirittura eccessiva, compreso un gigantesco lampadario strapieno di pendagli.
Servirono un antipasto misto composto da ostriche Fin de Claire, capesante gratinate, acciughe del mar Cantabrico e una selezione di pesce crudo.
La ribolla gialla veniva versata nel mio calice da un cameriere in elegante divisa bianca. Era fresca, stuzzicante e la bevvi come fosse acqua, anche perché ero assetato.
Pietro non bevve neppure un goccio. «Al centro per le dipendenze mi hanno insegnato che quando si è etilisti, lo si è per tutta la vita. L’unica nostra speranza è non bere mai più».
Così pensai di fare anche la sua parte e invitai con ampi gesti il cameriere a non fermarsi.
Quando furono presentati gli spaghetti all’astice, contemplai il piatto con occhi appannati, rinnovando con ostinazione il mio sacro rito in onore di Bacco. Ricordo che, ormai alticcio, intonai persino “Bella ciao”, in attesa del branzino, finché non ne dimenticai le parole. Il mio vicino di tavolo non la smetteva di ridere e si divertì ad agitare in aria un pugno serrato.
Dopo cena, faticai a raggiungere l’auto. Ma quando feci scattare il meccanismo d’apertura, Pietro mi trascinò via con ruvidezza, verso la sua Ford Fiesta.
«Ma che fai? Ce la faccio a guidare fino a casa». Provai a protestare.
«Neanche per sogno. Vuoi rovinarti la vita come ho fatto io?».
Appoggiai la testa al finestrino e mi sentii al sicuro come un bambino, mentre la Ford Fiesta muoveva i primi passi, stritolando la ghiaia del parcheggio.
“Se avessi guidato la mia auto avrei rischiato di uccidere qualcuno”. Pensai. “Oddio, quanto è sottile il confine tra l’essere un avvocato e l’essere un imputato…chissà se lo capiscono anche i giudici”. Fu il mio ultimo pensiero, prima di addormentarmi al dolce suono del motore.
Delitto tentato
Il delitto tentato è previsto, punito e disciplinato dall’art. 56 del codice penale. La norma così testualmente recita:
“Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.
Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione da ventiquattro a trenta anni, se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.
Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”.
La punibilità del reato nelle forme del tentativo è prevista anche per le contravvenzioni?
La risposta è negativa. La norma stabilisce con chiarezza che il delitto tentato è previsto solo per i reati più gravi, ovvero i delitti, punibili con la pena della detenzione e/o della multa. La fattispecie è viceversa esclusa in ipotesi di fattispecie penali di più lieve entità, le contravvenzioni, punite con la pena dell’arresto e/o dell’ammenda.
Che cosa s’intende con la locuzione “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”?
Sono atti idonei a cagionare un reato solo quelli in concreto oggettivamente suscettibili di produrre l’evento. Qualora gli atti compiuti per la perpetrazione di un delitto si rivelino, in concreto, non idonei a raggiungere lo scopo avuti di mira dal reo verseremmo in ipotesi analoga a quella definibile come “reato impossibile”. Il reato c.d. impossibile non è ritenuto dal legislatore meritevole di sanzione in quanto non mette concretamente in pericolo il bene protetto dalla norma incriminatrice.
D’altra parte, vengono ritenuti atti diretti in modo non equivoco alla perpetrazione del reato quelli in relazione ai quali sia raggiunta la prova certa, oltre la fatidica soglia del ragionevole dubbio, che l’atto sia compiuto con certezza al riprovevole fine di produrre l’evento illecito. L’impiego di queste parole svela la preoccupazione del nostro legislatore che la fattispecie del delitto tentato possa avere profili in parte indefiniti comportando una estensione eccessiva dell’area della sanzione penale, in violazione delle garanzie assicurate da un ordinamento liberale e da uno stato di diritto.
Deve trattarsi, pertanto, di atto chiaramente preparatorio dell’evento criminale, come tale espressione di una fase avanzata del progetto delittuoso. Come tale sarà considerato con certezza atto inequivocabilmente volto alla commissione del delitto quello di Tizio che punti la pistola alla tempia della vittima. Viceversa sorgeranno dubbi interpretativi nel caso in cui Caio sia sorpreso all’uscita da casa in possesso di arma da fuoco all’atto di recarsi in altro comune all’appuntamento con Sempronio.
Quando l’azione non si compie?
L’azione non si compie, a mero titolo esemplificativo, allorché:
- La vittima reagisce ed impedisce l’evento, anche dandosi alla fuga;
- La polizia interviene e scongiura l’azione criminale;
- Terze persone intervengono a bloccare l’autore del reato.
Quando l’evento non si verifica?
L’evento non si verifica, a mero titolo esemplificativo, allorché:
- Il reo, per un errore tecnico, non centra il bersaglio;
- L’arma utilizzata dal reo s’inceppa (deve trattarsi, in concreto, tuttavia, di arma idonea viceversa ricadremmo nell’ipotesi di reato impossibile).
Affidamento in prova al servizio sociale
Analoga glossa compare in calce al racconto La Libertà: clicca qui per leggerlo!
L’affidamento in prova ai servizi sociali è una pena alternativa alla detenzione; vale a dire una sanzione alternativa al regime di restrizione carceraria o domiciliare, che, in omaggio alla funzione rieducativa della pena, mira a favorire, attraverso una minore compressione della libertà personale, il reinserimento sociale del condannato (Così Cassazione penale, sez. I, sentenza 10/01/2019 n° 1032).
L’affidamento in prova al servizio sociale consiste nella possibilità, a determinate condizioni, di espiare la pena definitiva che sia contenuta entro un limite edittale massimo (ovvero senza limite di pena per i soli soggetti affetti da Aids conclamata o grave deficienza immunitaria) o il residuo di una maggiore pena, cioè detratta la pena già espiata o condonata, fuori dall’Istituto penitenziario, affrontando un periodo di prova il cui esito positivo estinguerà la pena ed ogni altro effetto penale.
L’affidamento in prova al servizio sociale presenta indubbi risvolti positivi di tipo sociale. In particolare:
- Costituisce il miglior modo di attuare il dettato costituzionale in punto di funzione risocializzante della pena;
- Consente di affrontare il delicato problema del sovraffollamento carcerario;
- Consente di garantire al meglio le esigenze sanitarie, evitando contagi di massa all’interno di vetusti istituti di pena;
- Scongiura il contagio criminale;
- Favorisce l’avviamento dei rei al lavoro o ad attività di utilità sociale;
- Rappresenta un innegabile risparmio per le casse dello stato, in punto di mantenimento in carcere dei detenuti.
Quali sono le tipologie di affidamento?
- L’affidamento in prova ordinario (art. 47 legge 26 luglio 1975, n. 354 o.p.).
- L’affidamento in prova di soggetti affetti da AIDS conclamata o grave deficienza immunitaria (art. 47 quater legge 26 luglio 1975, n.354 o.p.).
- L’affidamento in prova in casi particolari (inizialmente previsto dall’art. 47bis o.p., poi abrogato con l’art. 3 della legge 27 maggio 1998, n. 165) oggi previsto dall’art. 94, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
- L’affidamento in prova del condannato militare di cui all’art. 1 della legge 29 aprile 1983, n. 167.
Chi può richiedere l’affidamento in prova?
- Il condannato che sia a piede libero o anche detenuto e debba espiare una pena, anche come residuo di pena maggiore, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole (c.d.“affidamento allargato” ex art. 47 comma 3 bis o.p. che sostituisce una precedente declinazione dell’istituto, innalzando a quattro anni il limite di pena precedentemente fissato in anni tre);
- Fuori da qualsivoglia limite di pena, il condannato affetto da AIDS conclamata o grave deficienza immunitaria che abbia in corso un programma terapeutico o ad esso intenda sottoporsi presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di AIDS;
- Ex art. 94 DPR n. 309 del 1990 (affidamento in casi particolari), il condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore ad anni sei se tossicodipendente ovvero alcoldipendente, qualora ritenga di sottoporsi ad un programma terapeutico di recupero, sempre che il programma sia certificato come idoneo.
Il condannato può essere ammesso all’affidamento purché:
- abbia tenuto un comportamento che consenta un giudizio prognostico favorevole in ordine alla sua rieducazione (assenza di pericolosità sociale);
- la misura in questione sia idonea a escludere il pericolo di recidiva;
- nel caso di soggetto affetto da AIDS conclamata o grave deficienza immunitaria, abbia ottenuto, dal servizio sanitario pubblico competente o dal servizio sanitario penitenziario, una certificazione che attesti la sussistenza delle condizioni di salute ivi indicate e la concreta attuabilità del programma di cura e assistenza, la quale deve essere allegata all’istanza.
Quando non può essere concessa?
- Per i delitti di cui all’art. 4 bis comma 11 o.p. (in sostanza per i reati di criminalità organizzata terroristica e/o mafiosa) l’affidamento può essere concesso solo in caso di collaborazione con la giustizia, salvo la collaborazione sia impossibile o irrilevante ai sensi del comma 1 bis o.p..
- Per i delitti di cui all’art. 4 bis comma 1ter2 o.p. (reati di particolare allarme sociale) l’affidamento può essere concesso qualora non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
- Per i delitti di cui all’art. 4 bis comma 1 quater o.p.3, l’affidamento può essere concesso solo dopo un anno di osservazione della personalità condotta in istituto.
Il divieto di concessione dell’affidamento in prova non si applica ai soggetti affetti da AIDS conclamata o grave deficienza immunitaria (art. 47 quater comma 9 o.p.).
Ai sensi dell’art. 58-quater comma 1 o.p. l’affidamento in prova al servizio sociale non può inoltre essere concesso:
- al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di evasione;
- al condannato (non minorenne: cfr. Corte Cost. Sentenza 436/1999) nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una misura alternativa, per un periodo di tre anni;
- al condannato recidivo ex art. 99 comma 4 c.p. (recidiva reiterata) salvo dimostri di aver raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti (Corte Cost. Sentenza n. 79/2007);
- al condannato per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, nei cui confronti si procede o è pronunciata condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale ovvero durante il lavoro all’esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione: in quest’ultimo caso il divieto di concessione del beneficio opera per un periodo di 5 anni da quando è ripresa l’esecuzione.
Se il condannato si trova in libertà, l’istanza è presentata al pubblico ministero competente per l’esecuzione che la trasmette al tribunale di sorveglianza (art. 96 dpr 230/2000).
Se il condannato è detenuto, l’istanza è presentata al Direttore dell’istituto di detenzione il quale la trasmette al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo dell’esecuzione (art. 96 dpr 230/2000). In quest’ultimo caso, se a presentare l’istanza è il difensore della persona detenuta, munito di procura all’uopo rilasciata, l’istanza è depositata presso la cancelleria del Tribunale di Sorveglianza del luogo di detenzione.
Il magistrato di sorveglianza, quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga, dispone la liberazione del condannato e l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova con ordinanza. L’ordinanza conserva efficacia fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il magistrato trasmette immediatamente gli atti.
L’affidamento in prova viene concesso con ordinanza adottata in camera di consiglio dal Tribunale di Sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione della pena, sulla scorta della documentazione relativa alla personalità del condannato (cartella personale del detenuto o, se l’interessato è libero, informativa proveniente dall’Ufficio per l’esecuzione penale esterna detto UEPE) nonché di tutti gli elementi acquisibili ex officio che l’organo giudicante ritenga utili ai fini della decisione.
Il provvedimento è ricorribile in cassazione dal difensore del condannato iscritto all’albo speciale dagli avvocati patrocinanti dinanzi alle giurisdizioni superiori e dal Procuratore generale, entro 15 giorni dalla notificazione/comunicazione.
In caso di concessione del beneficio, l’ordinanza viene trasmessa, a cura della cancelleria dell’organo giudicante, al direttore dell’istituto penitenziario in cui si trova il condannato detenuto: ciò ai fini della sottoscrizione del verbale relativo alle prescrizioni che il beneficiario dell’affidamento dovrà seguire.
Nel caso in cui l’interessato sia libero, l’ordinanza è comunicata /notificata alle parti e ai difensori con l’avviso per l’interessato di presentarsi entro 10 giorni all’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) al fine di procedere alla sottoscrizione del verbale dinanzi al Direttore di tale struttura: la mancata presentazione del condannato in status libertatis comporta la revoca della misura salvo sussistano fondate ragioni del ritardo (art. 97 comma 2 DPR 30 giungo 2000, n. 230). La revoca sarà disposta dal giudice dell’esecuzione, a seguito di udienza.
In caso di mancata sottoscrizione del verbale l’affidamento in prova non ha effetto (v. art. 97, comma 3, D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230).
L’inizio dell’esecuzione della misura è subordinato all’accettazione, mediante sottoscrizione del verbale, delle prescrizioni sottese all’affidamento in prova: prescrizioni che, per un verso, sono finalizzate a favorire l’opera di rieducazione del reo; per altro verso, sono dirette a neutralizzare eventuali fattori recidivanti.
Le prime fanno riferimento ai rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed al lavoro.
Le seconde, c.d. prescrizioni di polizia, hanno funzione limitativa e preventiva e possono riguardare il divieto di soggiorno in uno o più comuni, l’obbligo di soggiorno in un comune determinato, il divieto di svolgere attività o avere rapporti personali che possano comportare il compimento di altri reati.
In ogni caso le prescrizioni restrittive connesse alla concessione della misura non possono precludere l’esercizio dell’attività lavorativa. Il condannato che per lavoro è costretto a viaggiare fuori dal comune ove ha fissato il domicilio ovvero a trattenersi fuori di casa di notte avrà cura di chiedere al magistrato di sorveglianza le opportune autorizzazioni.
In effetti il lavoro (unitamente alla disponibilità dell’alloggio e alla non pericolosità sociale) rappresenta uno dei parametri più importanti per la concessione della misura.
Il lavoro, oltre a “nobilitare l’uomo”, è anche fondamentale per il reinserimento sociale e, garantendo fonti lecite di guadagno, rappresenta un deterrente al reato (forse il principale).
Analoghe autorizzazioni saranno concesse per ragioni di salute (ospedalizzazioni, visite specialistiche, esami etc) ovvero per la partecipazione ad eventi personali o familiari importanti (come funerali, matrimoni etc).
Nel verbale deve anche stabilirsi che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del reato da lui perpetrato ed adempia puntualmente agli obblighi di assistenza familiare. Ciò è disposto in funzione della mediazione dei conflitti, ritenuta fondamentale a fini risocializzativi.
Quando si tratta di condannati affetti da AIDS conclamata o grave deficienza immunitaria le prescrizioni da impartire devono contenere anche quelle relative alle modalità di esecuzione del programma terapeutico presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di AIDS.
Nel corso della misura l’UEPE deve aiutare il condannato al reinserimento sociale, controllare la condotta tenuta, verificare il rispetto delle prescrizioni e riferire periodicamente al Magistrato di Sorveglianza sull’andamento dell’affidamento, inviando, infine, una relazione finale all’estinzione della pena.
Nel corso dell’affidamento le prescrizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza. Le deroghe temporanee alle prescrizioni sono autorizzate, nei casi di urgenza, dal direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna, che ne dà immediata comunicazione al magistrato di sorveglianza e ne riferisce nella relazione periodica sul comportamento del soggetto.
La sospensione dell’affidamento in prova (art. 51 ter o.p.) può essere disposta se la persona sottoposta ad essa pone in essere comportamenti suscettibili di determinarne la revoca del beneficio (v. infra): in tal caso il magistrato di sorveglianza, nella cui giurisdizione la misura è in esecuzione, ne dà immediata comunicazione al tribunale di sorveglianza e può disporre con decreto motivato la provvisoria sospensione della misura alternativa ordinando l’accompagnamento in istituto del trasgressore. Il provvedimento di sospensione perde efficacia se la decisione del tribunale non interviene entro trenta giorni dalla ricezione degli atti.
La revoca (art. 47 comma 11 o.p.) può essere disposta quando il comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, sia incompatibile con la prosecuzione della prova: in questi casi il Tribunale di Sorveglianza emette l’ordinanza di revoca, e ridetermina la pena residua da espiare.
L’annullamento può essere disposto in caso di sopravvenienza di un altro titolo esecutivo (art. 51 bis o.p.) che determini un residuo di pena superiore a quello consentito per la misura: in tal caso il pubblico ministero competente ai sensi dell’articolo 655 c.p.p. informa immediatamente il magistrato di sorveglianza formulando contestualmente le proprie richieste. Il magistrato di sorveglianza, tenuto conto del cumulo delle pene, se rileva che permangono le condizioni di applicabilità della misura in esecuzione, ne dispone con ordinanza la prosecuzione; in caso contrario, ne dispone la cessazione e ordina l’accompagnamento del condannato in istituto. Avverso il provvedimento di cui al comma 1 è ammesso reclamo ai sensi dell’articolo 69-bis al Tribunale di sorveglianza.
Prescrizioni più comuni imposte al condannato ammesso alla pena alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale:
- Divieto di lasciare l’abitazione, al mattino, prima di una certa ora (generalmente le ore 8). Salvo autorizzazione per ragioni di lavoro, salute o familiari;
- Divieto di fare rientro nell’abitazione oltre un determinato orario (generalmente le ore 23). Salvo autorizzazione per ragioni di lavoro, salute o familiari;
- Divieto di lasciare il comune in cui si fissa il proprio domicilio. Salvo autorizzazione per ragioni di lavoro, salute o familiari;
- Divieto di frequentare pregiudicati;
- Divieto di partecipare ad assembramenti o di frequentare locali di spaccio di sostanze alcoliche;
- Conservare l’attività lavorativa;
- Avere stretti contati con l’UEPE.
Ai fini dell’ottenimento della pena alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale è esiziale dimostrare di poter contare su un alloggio e su una attività lavorativa idonea ad assicurare legittime fonti di reddito.
L’avvocato scrupoloso e diligente, avrà cura di informare il proprio cliente a piede libero, raggiunto da un ordine di esecuzione di pena temporaneamente sospeso in relazione al quale egli possa chiedere ed ottenere l’ammissione alla pena alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, dell’esigenza di presentare la suddetta istanza, perentoriamente entro giorni trenta dalla notifica, presso gli uffici della procura della repubblica che ha emesso l’ordine di esecuzione medesimo. Spirato tale termine il condannato non potrà più godere della sospensione dell’ordine di esecuzione e potrà essere tradotto in carcere. In questo caso egli dovrà fare analoga istanza a mani del Direttore del Carcere.
Affidamento in prova terapeutico
L’affidamento in prova in casi particolari (o affidamento terapeutico) è una misura alternativa alla detenzione, disciplinata dall’articolo 94 del D.P.R. 309/1990, per tossicodipendenti o alcoldipendenti che vogliono intraprendere o proseguire un programma terapeutico. La sua finalità è quella di consentire al condannato di espiare la pena in libertà, sottoposto a un programma di recupero che lo aiuti a uscire dalla dipendenza.
L’affidamento terapeutico, che garantisce la finalità di recupero sociale della sanzione penale, è concessa allorché la pena detentiva da scontare, anche residua, non superi i sei anni.
Tuttavia il limite massimo di pena per la concessione dell’istituto è pari a quattro anni allorché si proceda per i reati prevista dall’art. 4 bis della Legge n. 354 del 1975 (tutti relativi a reati riferibili ad associazioni criminose).
Trattasi, nello specifico, delle seguenti ipotesi criminose:
- Delitti commessi per finalità di terrorismo o eversione.
- Delitti di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.).
- Delitti di riduzione in schiavitù e tratta di persone (art. 600, 601, 602 c.p.).
- Delitti di sequestro di persona (art. 630 c.p.).
- Delitti di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi (art. 291 quater D.P.R. 43/1973).
- Delitti di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 D.P.R. 309/1990).
- Qualsiasi delitto commesso per agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, salvo che il condannato non abbia collaborato con la giustizia e non vi siano collegamenti con la criminalità organizzata.
La ratio giustificatrice delle suddette limitazioni al limite di pena di anni sei risiede nella particolare gravità delle ipotesi criminose ostative.