Diritto Civile
Un figlio sbagliato
Zio Arturo mi fissava, nel mirino dei suoi occhi grifagni, sotto le sopracciglia tanto inarcate da formare un triangolo.
Il suo sguardo avido e penetrante, da rapace, turbava tutte le mie riflessioni sul limite estremo etico e morale che non è lecito oltrepassare nell’esercizio della professione di avvocato.
Inutile illudersi: lo zio sarebbe stato per sempre il mio mentore. I suoi mantra da libro di magia nera giuridica avevano inciso nella mia anima una traccia indelebile.
Era più di un anno che non lo vedevo, dall’ultima cena di pesce che mi aveva offerto, dopo la mia sconfitta contro di lui in corte d’assise, ma era come se non ci fossimo mai lasciati.
Quel freddo pomeriggio di gennaio mi aveva invitato nello stesso ristorante per parlarmi di una pratica che intendeva cedermi, non volendo trattarla personalmente.
Il cliente era un trentacinquenne di nome Gian Paolo Fontana. A venticinque anni era stato messo alla porta dal padre, imprenditore milanese di successo, per avere rubato dalla cassa aziendale il denaro necessario all’acquisto di parecchie dosi di cocaina. Lontano dalla casa di famiglia, il giovane si era disintossicato in una comunità, grazie all’appoggio del SERD, e ora, da mesi privo di stabile occupazione e di un alloggio autonomo, intendeva fare causa al padre per avere un aiuto economico che bonariamente gli veniva rifiutato.
Rivolsi a mio zio un’occhiata perplessa. «Perché non te ne occupi in prima persona?».
La risposta non mi stupì affatto. «Questo signore non ha denaro. È stato ammesso al patrocinio a spese dello stato. Ha pescato il mio nome dall’albo. Arturo Battaglia è uno dei primi alla lettera B».
«Ah già». Commentai con un sorriso. «Dimenticavo che tu sei quello dei lauti guadagni e io quello dei casi umani».
Mio zio non fece una piega. Sfilò una sigaretta dal pacchetto e l’accese, davanti alla finestra aperta, mentre aspettavamo la grigliata mista di pesce. «Ci tengo che te ne occupi tu, perché credo che il ragazzo meriti tutela e tu sei un fenomeno di sensibilità umana».
Sospirai rassegnato. «E va bene. Ti prometto che me ne occuperò. Ci sono altri particolari che vuoi anticiparmi su questo caso?».
«Si, per la verità. Sono convinto che il Signor Fontana abbia rotto con il figlio anche perché ha scoperto che era gay. Una cosa davvero disdicevole, non trovi?».
Sgranai gli occhi per lo stupore. «Non ti facevo sensibile a questa tematica. Voglio dire… tu sei sempre pronto ad esaltare il mito della virilità».
Lui mi rispose, riempiendo il mio calice di Ribolla gialla. «Sono uno che ama guadagnare e vincere. Non sono un omofobo». Poi mi sorrise, col solito magnetismo da predatore. «Ho nostalgia di quando lavoravi per me. Te lo ricordi? Potrebbe avvenire anche in futuro, mai dire mai. Se non mi avessero arrestato per quella storia della droga in studio, pensi che lavoreremmo ancora assieme?».
Scossi la testa. «Chi può dirlo, ma credo di no. Cercavo la mia libertà, la mia strada».
«Già». Lo zio frugò in una borsa di pelle e ne estrasse un voluminoso faldone che posò su un angolo del tavolo. «Queste sono tutte le carte. Mi prometti che domani chiamerai il ragazzo per riceverlo nel tuo studio? Devo confessare che mi ha fatto tenerezza».
«Certo. Te lo prometto».
«Grazie. Ci tengo».
Anch’io avevo una domanda che mi frullava nella testa e piegai il busto in avanti, per poter parlare a voce bassa. «Zio, credi davvero che io sia un buon avvocato?». Quella domanda svelava tutta la fragilità della mia autostima. Me ne accorsi e diventai rosso per l’imbarazzo.
Lui mi rivolse un’occhiata comprensiva e scostò, con un gesto rapido, il solito ciuffo biondo che era spiovuto davanti al mio occhio destro. «Non un bravo avvocato, ma un ottimo avvocato! Sei intuitivo, perspicace e tenace. Ti definirei un instancabile cercatore della verità. Ti manca ancora l’esperienza ma la farai sul campo. Sei uno che impara in fretta. In corte d’assise ho temuto di perdere. Con il tuo brillante controesame stavi per far cadere in contraddizione l’unico testimone».
Quelle parole rinnovarono il senso di frustrazione che da quasi un anno provavo per quella ingiusta assoluzione. «Il teste era stato minacciato, non è vero?».
Lo zio allargò le braccia. «Chi può dirlo! Possiamo solo constatare che ha ritrattato una testimonianza oculare, facendo cadere un’accusa di omicidio! Noi due siamo stati solo spettatori, seppur su fronti opposti, di un evento indipendente dalla nostra volontà».
Osai sfidarlo, tentando di imitare il suo sguardo da serpente. «Tra qualche mese fisseranno il giudizio d’appello. Il pubblico ministero ha impugnato la sentenza e io parteciperò al secondo grado di giudizio come parte civile. C’è una vedova che vuole giustizia. Forse l’esito sarà diverso e condanneranno quel delinquente!».
Mio zio reagì con prontezza. «Più che delinquente lo chiamerei imputato, allo stato innocente. Non dimenticarti di rispettare le sentenze di assoluzione. Credo di non dovertelo insegnare io!».
La sua voce risuonò perentoria e io, una volta di più, gli invidiai quella sicurezza da guerriero, che non lo abbandonava mai e che a me faceva difetto.
Chiamai il mio nuovo cliente la mattina successiva e lo convocai in studio per il tardo pomeriggio di quello stesso giorno. Mi rispose una voce flebile e riconoscente, assai simile a quella di un adolescente.
Quando lo vidi varcare la soglia della mia stanza, compresi il perché lo zio aveva preso a cuore il suo caso. Era magro e pallido come un fantasma, con un sorriso smarrito sul volto triangolare. Camminava con passo incerto, rasente il muro, e sembrava sperare di essere invisibile.
Lo feci accomodare all’altro capo della mia scrivania e lo pregai di parlarmi di suo padre e, più in generale, della sua famiglia.
Rispose con lo sguardo fisso sulle sue scarpe. «Mio padre ha una catena di negozi di abbigliamento».
«Hanno un buon fatturato? L’azienda va bene?».
«Oh, sì. Abbiamo appena aperto un nuovo negozio vicino a via Montenapoleone, qui a Milano». Si interruppe per mordersi un labbro e scuotere la testa. «Che stupido che sono…parlo ancora come se quella fosse ancora la mia famiglia».
Lo spronai a raccontarmi tutto con dovizia di particolari, intuendo che la decisione di citare il padre in Tribunale gli fosse stata inculcata da mio zio.
All’improvviso sembrò farsi coraggio e vuotò il sacco, senza più interrompersi. «Mio padre sognava di trovare in me, il primogenito, il suo erede. Voleva che lo affiancassi molto presto alla guida dell’azienda. Ma Marco, il mio fratello minore, era migliore di me in tutto…più sveglio, più intraprendente, più ambizioso, più tenace. E mi soffiò il posto. Addio al diritto di primogenitura. A scuola avevo già fallito. Mi sembrava di impazzire e ho cominciato con la cocaina, anche perché Mauro, il mio compagno, mi aveva lasciato. Non me la sentivo di fare lo spacciatore, mi mancava il coraggio, e non avevo i soldi per le dosi che mi servivano in numero sempre maggiore. Così ho rubato dalla cassa dell’azienda. Mio padre si era dimenticato di togliermi la firma sul conto intestato alla società. Lui l’ha scoperto e ha saputo anche di Mauro e mi ha ordinato di andarmene di casa e di non farmi più vedere. L’ha fatto durante una cena, urlando che si vergognava di me. Mio fratello è stato zitto. Credo che a lui andasse fin troppo bene così».
Sollevai gli occhi dal notes su cui stavo prendendo appunti. «E sua madre? Lei ha fatto qualcosa per fargli cambiare idea?».
«Mia mamma è morta, avvocato».
«Oh, mi dispiace. E quando è successo?».
«Io e mio fratello eravamo piccoli, quando lei si è ammalata. È morta in pochi mesi. Mio padre ci ha fatto anche da madre».
Annuii intenerito. «Ci sono altre persone nella sua famiglia?».
«Solo mio fratello. Ma a lui non chiedo nulla. Mio padre gli passa giusto quattro soldi».
Gli chiesi di parlarmi delle sue esperienze lavorative.
«Ho avuto un solo lavoro, in un bar».
«E com’è andata?».
«Era un lavoro che mi aveva procurato mio padre, in un impulso di generosità. È andata malissimo. Mi costringevano a orari assurdi e si rifiutavano di pagare gli straordinari. Mi davano ordini come fossi un imbecille. Mi sentivo uno sfigato e mi sono licenziato. Anche gli amici mi hanno consigliato di farlo. Ho tirato avanti tre mesi. Poi non ce l’ho più fatta».
«Dove vive? È ospite di qualcuno».
«Sì. Sono ospite del mio amico Luca. Ma ancora per poco. Poi lui inizierà a convivere con la sua fidanzata e dovrò andarmene».
«Capisco». Chiusi il notes e gli domandai quanti soldi voleva che il Tribunale ordinasse a suo padre di pagargli. Mi rispose che gli bastavano ottocento euro al mese, per un affitto.
Gli spiegai che la causa presentava delle insidie e che un esito favorevole non era affatto scontato.
Gli dissi che lui non aveva più diritto ad un vero e proprio mantenimento, avendo ormai compiuto i trenta anni da diverso tempo, avendo ingiustificatamente abbandonato gli studi ed essendosi licenziato da un lavoro che comunque, bene o male, avrebbe potuto garantirgli una rendita.
«Signor Fontana». Gli dissi con realismo. «Dobbiamo puntare su un assegno alimentare. Per ottenerlo dovremo dimostrare la sua totale indigenza e la capacità patrimoniale di suo padre. Dovremo anche convincere il giudice che la mancanza di lavoro dipende da un’oggettiva impossibilità di ottenerlo e non da una sua scarsa determinazione nel trovarlo. L’articolo 438 del codice civile e la cassazione parlano chiaro a questo proposito. L’avverto: non sarà affatto facile».
Il giovane trovò la forza di guardarmi negli occhi e ammise che ero stato chiaro.
Mi chiese di non chiamarlo Signor Fontana ma semplicemente Giampi e di dargli del tu.
“Questo non vuole proprio saperne di crescere” pensai, mentre lo scortavo lungo il corridoio, verso l’uscita.
Poche ore dopo, al ristorante toscano, davanti a tre bistecche fumanti e ad un litro di rosso della casa, si accese tra me, la mia fidanzata Claudia e il mio socio e migliore amico Claudio, un acceso dibattito su quell’ultima pratica cedutami da zio Arturo.
Claudia, senza esitazione prese le difese di Giampi. «É incredibile come un padre possa permettersi di abbandonare un figlio». Sbottò, rossa di collera. «Quel ragazzo aveva rubato i soldi perché schiavo della droga, perché malato e bisognoso di cure. Poi combatte da solo, ne esce vincitore, inizia una nuova vita e quello stronzo invece di complimentarsi con lui non gli sgancia neppure un centesimo per l’affitto di una stanza, dopo averlo cacciato di casa? Finiamola con gli stereotipi di questa società competitiva in cui bisogna essere fabbricati come prototipi di successo, altrimenti si finisce nell’immondizia. Per non parlare dell’omofobia: vomitevole!».
Claudio non era d’accordo. «Smettiamo di pensare che un padre debba prendersi cura di un figlio per tutta la vita. Non fabbrichiamo prototipi di successo, ma neppure mammoni incapaci di stare in piedi da soli. Quello un lavoro ce l’aveva e ci ha rinunciato. Perché? Sono più comodi i soldi di papà? A prendere il caffè al bar bisogna andare nei giorni e negli orari in cui il signorino se la sente di indossare la divisa da cameriere? Ma fatemi il piacere!».
Io li ascoltavo pensieroso, intuendo che quel dibattito anticipava le incertezze di un giudizio impronosticabile nel suo verdetto finale.
Tuttavia, il giorno successivo, scrissi la citazione in tribunale relativa a quel caso, in meno di due ore, supportando le mie argomentazioni con sentenze della cassazione ed allegando una trentina di documenti.
Mi sembrò di essere persino ispirato. Era come se le parole mi anticipassero sulla tastiera del pc familiarizzando le une con le altre. Giampi, quando gli lessi lo scritto che avevo partorito, mi fece i complimenti.
Affidai l’atto di citazione agli ufficiali giudiziari per la notifica al padre del mio cliente e iscrissi la causa a ruolo.
Due mesi dopo, consultando la consolle avvocati, constatai che il Signor Piero Fontana si era costituito in giudizio col patrocinio di un civilista molto noto a Milano, l’avvocato Savino Quaranta. Non mi stupii del fatto che la controparte avesse scelto un avvocato di grido, vista la notevole disponibilità finanziaria su cui poteva contare il Signor Fontana.
Stampai la comparsa di controparte e mi immersi nella lettura. Devo ammettere che mi spinse a ciò anche la curiosità di conoscere l’altra versione dei fatti. Non si dice sempre che la verità coincide con la sintesi degli opposti punti di vista?
Si trattava di dodici pagine, come immaginavo infarcite di innumerevoli apprezzamenti negativi sul percorso esistenziale del povero Giampi.
Lessi che il ragazzo era stato bocciato per ben due volte al primo anno di liceo, anche a causa di
numerose assenze ingiustificate, alcune delle quali per perdere denaro in partite di poker. Allora
aveva convinto il padre ad iscriverlo a ragioneria, collezionando il terzo KO scolastico consecutivo. Quindi erano iniziate le suppliche perché papà Piero gli pagasse un corso speciale di recupero degli anni persi, salvo non presentarsi neppure all’appello d’esame. In quell’occasione il ragazzo era mancato da casa tre giorni e dopo affannose ricerche il padre l’aveva trovato a dormire, stordito dall’alcool, testa a testa con un clochard, in un giardino, alla periferia Nord di Milano. Si era, allora, tentato di inserirlo nell’azienda paterna: niente da fare. Giampi si limitava a consegnare i capi d’abbigliamento ai clienti, rifiutandosi di fornire qualsiasi altra informazione, compreso il prezzo.
Un sabato pomeriggio aveva abbandonato il negozio aperto, per andare al mare col suo compagno Mauro, consentendo ai ladri di depredare indisturbati l’azienda. Poi erano cominciati abusi di sostanze stupefacenti di varia natura, cocaina compresa, con ammanchi di denaro sia alla contabilità della cassa di casa sia a quella del conto aziendale. Lessi anche di una rocambolesca fuga notturna da una comunità di recupero dalla droga faticosamente trovata dal padre. Quell’autentico calvario familiare si era concluso con tre decreti penali di condanna a causa di altrettanti episodi di guida in stato di ebbrezza, con infiniti verbali di polizia per le più varie infrazioni al codice della strada e con le ingiustificate dimissioni dal lavoro di barista, anche quello procurato dal padre.
Il collega di controparte si era lanciato in un’affermazione alquanto retorica: “un padre non è un assistente sociale”. L’atto si concludeva con l’indicazione di ben dodici testimoni pronti a confermare ciascuna di quelle circostanze.
Convocai Giampi in studio, al fine di leggergli quello scritto e ideare qualche spunto per redigere una memoria di replica.
Lui ammise che i fatti narrati dall’avvocato Quaranta erano veritieri. Tuttavia mi indicò dieci testimoni in grado di affermare che il padre lo chiamava quotidianamente “fallito”, che davanti agli amici di famiglia dichiarava di vergognarsi di lui e che, in due occasioni, l’aveva etichettato con l’epiteto di “gay di merda”.
Dopo che ebbi depositato telematicamente la mia replica, a causa del forte mal di testa, dovetti riempirmi di paracetamolo. Mi chiesi chi me l’avesse fatto fare, per i pochi denari del patrocinio a spese dello stato, di farmi travolgere da una bega familiare di tale crudeltà.
L’udienza di comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione ebbe un esito inequivocabile.
Il giudice, un uomo attempato e intransigente, scrutò con occhio austero il mio cliente. «Lei lo sa che ha già trentacinque anni?».
«Lo so». Rispose Giampi, abbassando la testa.
«A trentacinque anni non si è più ragazzini».
«So anche quello».
Il giudice non ebbe pietà di lui. «Vedo che lei non ha contestato i fatti esposti nella memoria di suo padre. Devo dedurre che è tutto vero?».
Giampi si morse un labbro. «È tutto vero, Signor giudice, ma lei non sa cosa si prova ad essere bollato come un fallito, il figlio sbagliato, un gay di merda, un perdente…e questo ogni santo giorno, anche quando sei in bagno a lavarti la faccia…».
«Ma piantala di fare la commedia. Ti ho dato mille occasioni e lei ha sprecate tutte. Questa è la verità, pirla!». L’avvocato Quaranta non riuscì a zittire il suo assistito.
Allora Giampi, sfuggendo al mio controllo, si volse di scatto, verso suo padre. «È vero: le ho sprecate tutte le mie occasioni e ora mi riduco a chiederti l’elemosina. Ma cosa ti costa, con tutti i soldi che guadagni? Non vedi che sono cambiato? Sono pulito da anni. Non riesco a trovare un maledetto lavoro, ecco tutto!».
Il giudice batté un pugno sulla sua scrivania. «Adesso basta! Questa non è la sede per dirimere i vostri risentimenti personali». Poi sbirciò il mio cliente con occhio severo, ma paterno. «Lei lo sa che non si lascia mai un lavoro prima di averne trovato uno migliore?».
«Sapesse che lavoro…trattato come uno schiavo…».
Il giudice si tormentò le mani. «Dovete trovare un accordo, siete padre e figlio. Chiedo al padre se è disposto a dare al figlio quattrocento euro al mese e al figlio se è disposto ad accettarli».
Piero Fontana scambiò uno sguardo d’intesa col suo avvocato. «Ma sì, sono disposto. Basta che la finiamo qui». Poi trafisse il figlio con occhi da tigre, carichi di disprezzo. «Prenditi questi quattrocento euro al mese, fanne ciò che vuoi e dimenticati di me!».
Giampi scosse la testa e biascicò al mio orecchio. «Cosa me ne faccio di quattrocento euro al mese?».
Chiesi una breve sospensione dell’udienza e mi appartai col mio cliente in corridoio, per convincerlo. «Accetta, è pur sempre qualcosa! Il giudice ti ha fatto capire che respingerebbe la nostra domanda se la causa andasse in decisione. Al di là dei codici e delle parole scritte negli articoli di legge è questo ciò con cui dobbiamo fare i conti: il punto di vista del giudice!».
Giampi mi fissò con due occhi pieni di dignità. «Capisco e ti ringrazio, Ale, ma non posso accettare. Voglio andare fino in fondo. È tutta la vita che mi faccio abbindolare dagli altri, dagli amici che mi dicono di provare una nuova sostanza, da Mauro che finge di amarmi, da mio padre, da mio fratello, da tutti. Se sbaglio, per una volta, voglio sbagliare con la mia testa. Andiamo a sentenza!».
Io annuii, con un sorriso triste. E rientrammo in aula.
«Abbiamo perso la causa. Il giudice scrive che le nostre opposte ricostruzioni dei fatti sulle mancanze tue e di tuo padre sono assolutamente irrilevanti. Una sola cosa conta per lui: non abbiamo fornito la prova di una oggettiva impossibilità da parte tua di reperire lavoro. Mi dispiace».
Gli allungai sei fogli pinzati, con espressione del viso sinceramente affranta.
«Me l’aspettavo. Devo comunque ringraziarti, Ale. Hai fatto tutto il possibile. Non posso dimenticare che mi hai consigliato di accettare quei quattrocento euro. Ma non mi pento di avere rifiutato». Sollevò di scatto gli occhi che, finalmente, fiammeggiarono di intraprendenza. «Posso chiederti una cosa?».
«Che cosa?».
«Ho letto che lo stato ti pagherà circa quattromila euro per il mio patrocinio. Posso chiederti di anticiparmi la metà?».
Chissà perché mi aspettavo quelle parole. Non era neppure la richiesta più assurda fattami da un cliente. Scossi la testa. «Non se ne parla proprio. Il ministerio della giustizia mi pagherà tra un anno. Ma posso fare qualcosa per te». Gli diedi un biglietto da visita, su carta patinata. «E’ l’indirizzo di un bar tavola calda vicino al tribunale, gestito da gente che conosco. Cercano un cameriere. Sono brave persone. Pagano bene e, cosa più importante, sono chiusi dal pranzo del sabato alla colazione del lunedì».
Lui mi ringraziò con un sorriso pieno di speranza e mi promise che avrebbe chiamato subito.
Quando la sua esile sagoma scomparve, l’oltre l’angolo della prima rampa di scale, pensai a quanto la solidarietà umana fosse più importante della fredda giustizia scolpita nelle sentenze di tribunale.
Pensai che fosse proprio vero che la macchina della giustizia umana si mettesse in modo nel luogo e nel momento esatto in cui hanno fallito i nostri sentimenti.
Assegno alimentare
Di che cosa si tratta?
È un sostegno economico dovuto dai familiari del beneficiario al membro della famiglia che versi in stato di bisogno allo scopo di soddisfare le sue esigenze primarie. Tale sostegno economico è previsto e disciplinato dall’art. 438 c.c.
Che cosa si intende col termine esigenze primarie?
S’intende tutto ciò che è necessario alla sopravvivenza, in particolare a vitto, alloggio, vestiario
e cure mediche.
A quali presupposti è subordinato il riconoscimento del diritto all’assegno alimentare?
- L’avente diritto, in altre parole il richiedente, deve versare in oggettivo e reale stato di bisogno, inteso come oggettiva e perdurante difficoltà a garantirsi il vitto, l’alloggio, il vestiario e le cure mediche;
- L’avente diritto deve dimostrare di non essere in grado di provvedere autonomamente al proprio mantenimento. Ciò significa che per ragioni obiettive l’alimentando non deve essere in grado di svolgere un’attività lavorativa. Ciò significa che la carenza di una occupazione in capo all’alimentando non può essere dovuta a mera negligenza ma viceversa deve essere riconducibile a presupposti oggettivi come la sussistenza di patologie che comportino una invalidità lavorativa, un’età avanzata, esigenze di cura di familiari che siano incompatibili con l’esplicazione di una attività lavorativa;
- La capacità patrimoniale del soggetto obbligato a versare l’assegno di mantenimento che deve, a sua volta, poter godere di un reddito sufficiente a sopportare l’onere di provvedere all’altrui bisogno, anche solo in parte.
Come è quantificato l’importo dell’assegno alimentare?
Nella determinazione dell’importo dell’assegno alimentare l’articolo 438 del codice civile fa cenno genericamente a due parametri ugualmente significativo:
- L’entità del bisogno dell’alimentando;
- La consistenza del reddito del soggetto obbligato alla prestazione alimentare.
In ogni caso l’assegno alimentare non può superare l’importo necessario alla soddisfazione dei soli bisogni primari (come sopra definiti).
Quali sono i soggetti obbligati alla prestazione alimentare?
A mente dell’articolo 433 c.c. sono tenuti a prestare gli alimenti nell’ordine:
- il coniuge;
- i figli e in loro mancanza i discendenti prossimi (nipoti etc);
- i genitori e in loro mancanza gli ascendenti prossimi (nonni etc);
- i generi (mariti della figlia) e le nuore (mogli dei figli);
- il suocero e la suocera (genitori del coniuge);
- i fratelli e le sorelle, con precedenza dei germani (cioè aventi entrambi i genitori in comune) sugli unilaterali (cioè aventi un solo genitore in comune).
L’ordine stabilito dalla norma è assolutamente gerarchico. Ciò significa che il parente di grado gerarchicamente inferiore è tenuto alla prestazione alimentare solo nel caso in cui l’obbligato di grado superiore non possa provvedere.
Che differenza c’è tra mantenimento e assegno alimentare?
I due istituti, pur affini per l’omogeneità dei beni alla cui tutela sono preordinati, divergono profondamente nel contenuto.
Per mantenimento (dovuto al coniuge e ai figli a seguito di separazione e/o divorzio) s’intende la somma necessaria a preservare e perpetuare il regime di vita goduto antecedentemente alla fine della convivenza. Tale somma deve essere sufficiente alla soddisfazione non solo dei bisogni primari (vale a dire essenziali alla vita) ma anche di quelli ordinari (studio, sport, attività ricreative etc).
Viceversa l’assegno alimentare (cui si ha diritto anche a seguito della perdita del vero e proprio diritto al mantenimento) compre il soddisfacimento dei bisogni primari (vitto, alloggio, vestiario e cure mediche) ed è pertanto di gran lunga meno ampio.