Diritto penale
La forza della solidarietà
Marzio ci sapeva fare in cucina. I suoi piatti avevano il pregio della più assoluta mancanza di banalità. Gli spaghetti alla colatura di alici, arricchiti dall’origine partenopea dello chef, erano una vera opera d’arte.
Quella sera avrebbe offerto Claudia, che aveva prenotato per due il tavolo tondo accanto al camino, con due settimane di anticipo.
I nostri calici si accarezzarono, mezzo metro sopra la tavola. Festeggiavamo l’aumento che la mia ragazza aveva strappato al suo capo dopo mesi di inutili tentativi.
Fu un istante dopo il tintinnio dei cristalli nel brindisi che udii quel tonfo sordo.
Sollevai gli occhi dalla coppa strapiena di liquido giallo paglierino e notai la signora dell’ultimo tavolo, dall’apparente età di quaranta anni, che reclinava il capo di lato, tra le braccia della signora più anziana che sedeva alla sua sinistra.
Quel gemito di dolore misto a terrore mi mise i brividi.
Un uomo in giacca e cravatta, dai muscoli prorompenti e dai capelli brizzolati, si levò in piedi di scatto, facendo cadere a terra la sua sedia. Impugnava un coltello e lo brandiva in direzione della signora quarantenne. La sua voce era roca e feroce, dall’accento bestiale. «Se mi lasci ti ammazzo, lo giuro!». Prese fiato un istante, prima di incalzare la sua vittima con voce ancor più alta e furente. «Tu e tua madre non sapete contro chi vi state mettendo. Dovrete guardarvi alle spalle giorno e notte, per non finire al cimitero. Sarò il vostro incubo peggiore…e guai a te se mi denunci, stronza, vi ammazzo tutte e due».
Il capo dei camerieri intervenne con prontezza, piazzandosi a gambe larghe davanti a quell’uomo ancora armato di coltello. «Vattene all’istante. Fuori di qui! E posa immediatamente quel coltello o chiamo la polizia e ti faccio arrestare».
L’uomo in giacca e cravatta sembrò placarsi e lasciò cadere a terra il coltello.
Poi si diresse a passo rapido verso l’uscita, sorvegliato dagli sguardi attoniti dei clienti presenti, tutti seduti al proprio tavolo.
Giunto davanti al bancone del pesce, l’uomo si voltò all’improvviso. «Non lasciarmi, Paola, oppure sui giornali parleranno dell’ennesimo femminicidio! Ti troveranno morta, come quelle donne che riempiono i telegiornali, te l’assicuro. Meriteresti di fare la loro fine!».
A quel punto fu Marzio in persona ad intervenire, irrompendo nella sala dalla cucina. «Se ne vada subito e non metta più piede qui dentro! Ha capito?».
L’uomo stette muto e varcò la soglia del ristorante, sparendo oltre le fioriere poste sul margine del marciapiede.
Marzio, con un gesto della mano, chiamò a rapporto i quattro camerieri dislocati ai tavoli. «Ricordatevi la faccia di questo bastardo. Non deve mai più mettere piede qui dentro. È chiaro?».
I camerieri annuirono all’unisono, prima di tornare alle loro incombenze.
Claudia mi afferrò la mano e la strinse in una potente morsa. «Ale, hai visto?».
Mi limitai ad annuire. Volevo festeggiarla e temevo che il nostro umore precipitasse.
La mia ragazza sembrava sconvolta. «Incredibile che esistano uomini così bestiali. Non trovi? Ha parlato di femminicidio come se citasse il nome di un preservativo. In pochi secondi l’ha minacciata di morte per ben due volte. È inaccettabile. Dobbiamo fare qualcosa!».
«Sono d’accordo con te». Blaterai, mentre mi passavo un tovagliolo sulle labbra, nella inutile speranza che lei cambiasse discorso.
Claudia strinse più forte la mia mano. «Ale, tu sei un bravissimo avvocato e devi aiutarla. Che ne dici se ci sedessimo al loro tavolo? Odio pensare che quella poveretta decida di appartenere alla muta schiera delle donne che accettano passivamente le violenze degli uomini che dicono di amarle».
«Lascia stare, amo…siamo qui per festeggiare il tuo successo professionale non per lavorare all’ennesimo caso umano. Siamo di quanti me ne occupo? Siamo qui…».
Non riuscii a finire la frase che mi trovai sollevato dalla sedia da una forza irresistibile. Misi un piede davanti all’altro, sulle orme della mia intraprendente fidanzata.
Quasi senza accorgermi, mi trovai seduto di fronte alla poveretta che era stata minacciata di morte. Era torturata da un pianto sfrenato, che le tenerezze della signora più anziana non potevano placare. Sulla sua guancia sinistra si era aperta una ferita, dalla quale scorreva un rivolo di sangue.
Un solerte cameriere le consegnò un involucro di ghiaccio sanitario, che lei si affrettò a pigiare sopra la ferita.
Realizzai che il sinistro sibilo che avevo udito era rappresentato dalla detonazione di un violento schiaffo.
Claudia prese la parola con voce amorevole. «Cara signora, la violenza che ha subito è davvero inaudita. Non abbia paura e confidi nella giustizia. Ascolti il mio consiglio, lo denunci o lui tornerà a molestarla». Mi indicò, con un fulmineo cenno del capo. «Lui è il mio ragazzo. Si chiama Alessio Mayer ed è un bravissimo avvocato. Può fidarsi di lui. Prenda il suo biglietto da visita e lo chiami. Dia retta a me. Quello stronzo non può farla franca!».
La signora ferita si lasciò andare ad un sorriso inerme, ma non trovò la forza di pronunciare nemmeno una parola.
La donna che sedeva al suo fianco parlò per lei. «Paola, hai sentito? Questo signore è avvocato. Proprio quello che fa al caso tuo. Non devi avere paura».
Poi si rivolse a me, con aria affranta ma speranzosa. «Mia figlia ha paura, avvocato. Sarà la quinta volta che succede, anche se di solito nessuno vede niente perché lui si sfoga tra le mura di casa. Ogni volta le dico di denunciarlo perché altrimenti la prossima volta sarà peggio, ma lei non mi ascolta. Lui si scusa, dice che non voleva, le promette di cambiare e lei cade in trappola e gli concede la terza, quarta e quinta occasione. Per fortuna l’ho convinta a trasferirsi da me, nella cameretta che aveva da ragazza. Avvocato, quello finirà per ammazzare mia figlia e forse ne approfitterà per ammazzare anche me e l’altro mio figlio».
Non sapevo cosa dire e mi limitai a posare sulla tovaglia a quadri bianchi e rossi, accanto alla brocca del vino, quel rettangolo di carta patinata su cui era inciso il logo dello studio mio e di Claudio. All’improvviso avvertii in me quel moto d’orgoglio che la mia nobile professione talvolta mi ispirava; una sorta di appassionata tensione verso l’irraggiungibile ideale della giustizia. «Signora Paola, mi chiami, per favore. Lo faccia per sé stessa, per sua madre e per tutte le infelici donne che subiscono violenza. Se lei troverà la forza di denunciare quell’uomo, darà coraggio ad altre vittime innocenti».
Vidi una manina pallida e magra allungarsi davanti a me, fino ad afferrare il biglietto da visita, che prima sembrava giacere inerte ma desideroso di essere posseduto.
Quando mi alzai dalla sedia, ero tuttavia convinto che non avrei mai più rivisto la signora Paola. Mi augurai almeno di non leggere il suo nome nel tetro cimitero delle donne cadute per mano di uomini che avevano giurato di amarle.
In macchina, lungo la strada buia che ci avrebbe ricondotto a casa, Claudia mi fece la testa quadra sulla piaga sociale della violenza di genere. «… Il solito uomo a cui non piace sentirsi dire di no. La violenza alle donne è un fenomeno di grave allarme sociale. Sono ancora poche quelle che denunciano le offese subite. Lo sai che l’ottanta per cento delle donne non denunciano le violenze che subiscono dagli uomini? Bisogna aprire più consultori e fare prevenzione nelle scuole, partendo dalle medie. È a quell’età che si forma la coscienza. Lo sai perché tanti uomini, quando li lasci, picchiano le loro ex? Perché non sarebbe da maschi accettare passivamente un no come risposta. La donna è vista come un oggetto, un giocattolo che deve rispondere ai comandi, senza una propria autonoma volontà. Se il giocattolo non ubbidisce merita di essere rotto e gettato nell’immondizia».
Avevo voglia di arrivare a casa e affondare la testa nel cuscino, ma dovetti ammettere che il senso di giustizia di Claudia mi rendeva una persona migliore.
Con mia somma sorpresa, la mamma della Signora Paola Butti, queste erano le generalità complete della mia nuova cliente, chiamò in studio per fissare un appuntamento con me.
Le ricevetti con tutti gli onori, offrendo bibite fresche, visto che era fine luglio.
La Signora Paola aveva un aspetto ancor più dimesso della sera dell’agguato al ristorante. Sul suo viso era tristemente scolpita un’espressione sfiduciata.
Nonostante facessi di tutto per metterla a proprio agio, non riuscii a farla emergere dal guscio di un assordante mutismo.
La madre, invece, fu un fiume in piena, tanto che riempii quattro pagine di appunti.
Venni a sapere che il marito di Paola, Federico Pavia, l’aggressore del ristorante, la costringeva spesso a stare rinserrata in casa, talvolta persino tenendola sottochiave. Al culmine di ingiustificate scenate di gelosia, le impediva di frequentare le sue amiche. Le telefonate della madre e del fratello minore venivano da lui filtrate con dittatoriale severità. «Per lui non era mai il momento giusto per parlare a Paola». Sospirò la madre. «Paola è stanca…Paola non vuole parlarvi…Paola è fatta così, dovete lasciarla in pace…ma le pare, avvocato? Da quando una madre ha bisogno dell’autorizzazione per parlare con sua figlia?».
E poi c’erano le botte, gli insulti, gli appostamenti agli angoli delle strade, con frequenza pressoché quotidiana.
Dopo un’ora abbondante di agghiacciante narrazione degli eventi, venne il momento della firma sull’ultima riga della delega per la presentazione della querela per maltrattamenti e per ogni altro reato configurabile a carico del signor Pavia.
A tal fine, consegnai alla signora Paola un foglio dattiloscritto e lei lo sottoscrisse senza pronunciare una sola parola. Non saprei dire se lo fece per reale convinzione o solo per eseguire l’ennesimo comando a lei impartito da un uomo.
Ciò che conta davvero è che nei giorni successivi scrissi la più appassionata querela della mia ancor giovane carriera. Chiesi l’adozione immediata, da parte del magistrato inquirente, dei provvedimenti più urgenti a tutela dell’incolumità della mia cliente, come l’ordine di non avvicinamento alla vittima da parte del suo carnefice e l’applicazione del braccialetto elettronico a carico dell’indagato.
Seppi, con soddisfazione, che queste mie richieste erano state subito accolte dal pubblico ministero e che le indagini promettevano d’essere rapide ed efficaci.
Sei giorni dopo il deposito della querela, era stata convocata in polizia, per essere sentita come persona informata dei fatti, l’anziana signora Erminia, vicina di casa della signora Paola e di sua madre.
Meno di quindici giorni dopo fui contattato dall’avvocato Giovanni Fortuna, che conoscevo seppur in modo superficiale. Talvolta prendevamo il caffè allo stesso tavolino, alle undici del mattino, al bar del palazzo di giustizia.
Il collega mi informò di essere stato incaricato dal signor Pavia, quale difensore di fiducia. Mi disse che auspicava un accordo tra le parti, con un risarcimento del danno alla vittima e un ritiro della querela.
Gli dissi che non credevo alla possibilità di un’intesa tra le parti, data la gravità delle minacce rivolte alla mia assistita dal marito, ma ci lasciammo con la promessa che ci saremmo incontrati presso la sala avvocati del Tribunale.
Proprio non mi aspettavo di risentirlo addirittura il giorno dopo.
Mi ricordo che erano le cinque del pomeriggio, allorché il mio telefonino trillò con acuta disperazione.
«Pronto?».
«Pronto avvocato Mayer, sono il collega Fortuna…sono molto imbarazzato…ho sentito il bisogno di chiamarti…forse sbaglio a chiamarti…».
«Non ti imbarazzare, collega. Ti sento preoccupato. Cosa è successo?».
«Ecco non dovrei dirtelo…sai, il segreto professionale…la lealtà che dobbiamo al cliente…».
Cominciai a preoccuparmi. «Non preoccuparti. Parla con libertà. Ti ascolto».
«Il mio cliente mi ha davvero spaventato. Ecco, dice che vuole ammazzare la tua cliente e sua madre. Al telefono mi ha appena detto che sta andando a casa delle tue con un coltello. Sarà la solita idiota balla che dicono i clienti per farci spaventare e per avere attenzioni, hai presente? Ma dal tono della voce mi sembrava risoluto».
Il cuore mi rimbalzò in petto. «Ti ringrazio molto, collega». Dissi con voce stentorea, nonostante la preoccupazione. «Hai fatto molto bene ad avvertirmi. Mi metto subito in azione».
Quando posai il cellulare sulla mia scrivania di massello, provai un vivo turbamento. L’intuito, una delle poche qualità che ritengo di possedere, mi suggeriva di stare all’allerta. Quelle minacce di morte mi sembravano più che credibili, alla luce di quanto avevo visto al ristorante da Marzio.
Provai ad avvertire la mia cliente, ma il suo cellulare risultava irraggiungibile.
Il numero fisso di casa della madre purtroppo non me l’ero appuntato.
Rinvenni, setacciando la pratica, il numero dell’anziana Signora Erminia, la vicina di casa. Il suo numero di telefono risultava appuntato su un foglio pinzato al fascicolo, accanto al nome e cognome, nell’elenco dei testimoni di cui chiedere l’audizione per l’accertamento della responsabilità del Signor Pavia.
La signora mi rispose dopo soli due squilli. «La devo avvertire che le sue vicine, la signora Paola e sua madre, sono in pericolo». Sillabai, attento ad ogni sfumatura. «Ho ragione di ritenere che il marito della signora Butti stia venendo a fare del male ad entrambe. Le avverta, per favore, che non aprano a nessuno!».
Mi sembrò che la signora, a dispetto della voce tremante, avesse ben compreso il messaggio.
Cercai su internet il numero della stazione dei carabinieri territorialmente competente e lo trovai.
Provai a mettermi in contatto, ma la linea cadde più volte. Al quarto tentativo, finalmente, mi rispose un giovane che mi mise in attesa. Aspettai diversi minuti senza che alcuno si occupasse di me.
Stufo di attendere inutilmente, pensai di entrare in azione di persona, visto che la casa della madre di Paola non era troppo distante dal mio studio.
Mi spinsero ad agire il senso di giustizia e forse anche un pizzico di vanità. Se fossi riuscito a sventare un omicidio avrei conquistato l’imperitura stima della mia fidanzata. Claudia avrebbe avuto un grandioso racconto da narrare a cena agli amici, per tutta la vita.
Balzai a bordo della mia Opel Corsa ed innestai la marcia.
Ricordo di aver collezionato un’impressionante sequela di infrazioni al codice della strada, in occasione di quell’avventata impresa.
Avevo impegnato due volte l’incrocio col semaforo rosso e avevo tagliato ben tre rotonde, sfruttando i marciapiedi come cordoli, quasi fossi un pilota di formula uno.
Mi inseguiva un corteo di clacson che squittivano all’impazzata la loro rabbia.
Dai finestrini, aperti per il caldo, esplodevano, con il fragore di uno sparo, decine di imprecazioni.
Inchiodai in seconda fila, proprio davanti al civico numero tre, che rappresentava il traguardo della mia folle corsa.
Scendendo dall’auto vidi sul passo carraio, in sinistra sosta, acquattate l’una accanto all’altra, un’ambulanza e una volante della polizia, quest’ultima con il lampeggiante ancora in funzione.
“Troppo tardi” pensai con infinita amarezza.
«La Signora Paola Butti e sua madre…a che piano?». Urlai davanti al gabbiotto del custode del palazzo.
«Secondo piano, scala destra. Ci sono già poliziotti e medici». Mi rispose una voce maschile, destinata a restare per sempre senza un volto.
Salii di corsa le quattro ripide rampe di scale, facendo i gradini a quattro a quattro.
Arrivato al secondo piano, notai un capannello di poliziotti assiepati davanti ad una porta divelta dai cardini e quasi del tutto sfondata.
Una luce riverberava da sinistra. Una seconda porta era spalancata ed un uomo corpulento giaceva a terra, un metro oltre la soglia. Era ammanettato. Notai anche, ai piedi dell’uomo che riconobbi come l’aggressore della signora Paola al ristorante, un coltello che non mi parve insanguinato.
Un solerte poliziotto mi sbarrò il passo. «Lei chi è? Non può andare oltre».
«Mi chiamo Alessio Mayer. Sono l’avvocato della Signora Paola Butti. Ho provato ad avvertire i carabinieri. È successo qualcosa di brutto alle signore?».
Un istante dopo, da un angolo buio del corridoio, fuoriuscì l’esile sagoma della signora Paola Butti. Appena mi vide, mi corse incontro e mi abbracciò, con lo sguardo sfinito della sopravvissuta ad un naufragio. «Grazie avvocato. Grazie di avere chiamato la signora Erminia. Che prontezza avete avuto entrambi. Lo hanno arrestato. Ma è davvero finita adesso?».
Annuii, contento di sentire finalmente la sua voce. «Certo che è finita. Quell’uomo non può più farle del male». In verità non sapevo quanto credere alle mie stesse parole.
Il poliziotto che mi aveva fermato indicò un’anziana donna appoggiata allo stipite della porta di sinistra.
«Dobbiamo ringraziare questa vecchietta, avvocato. Il braccialetto elettronico non aveva funzionato e non saremmo mai arrivati in tempo».
Avanzai di un passo e strinsi la mano della donna. «Grazie, signora Erminia. Allora ho fatto bene a chiamarla».
«Certo avvocato». Mi rispose lei, con una voce piena di fierezza. «Dopo che mi ha telefonato sono corsa dalle mie vicine e le ho messe in salvo al piano di sopra, nell’appartamento di mia figlia, mentre chiamavo il mio amico poliziotto. Ho fatto appena in tempo, sa? Appena sono tornata a casa è arrivato quel diavolo di un disgraziato. L’ho osservato dallo spioncino e intanto parlavo con un poliziotto. Menava fendenti contro la porta come un indemoniato e intanto urlava…vi ammazzo…vi faccio vedere io… Poi si è messo a dare spallate, finché è riuscito a crearsi lo spazio per entrare. Quando si è accorto che dentro non c’era nessuno ha fatto un urlo bestiale, che non potrò mai dimenticare, e si è messo a bussare alla mia porta. Finalmente è arrivata la polizia».
«Brava signora». Mi complimentai. E non sono mai stato sincero come quella volta.
Pensai ai camerieri del ristorante da Marzio, al mio coraggioso collega di controparte, alla signora Erminia…persino a me stesso. Ciascuno di loro, di noi, aveva dato un contributo essenziale ad evitare un duplice omicidio.
Pensai a quanto sbagliamo a far conto solo sui rigidi e fragili meccanismi della giustizia, sottovalutando la forza preziosa della solidarietà di chi ci sta accanto.
Femminicidio
Cosa s’intende col termine femminicidio?
Con la parola femminicidio s’intende legalmente l’uccisione di una donna in quanto tale (vale a dire a motivo della sua appartenenza al genere femminile).
Si tratta, pertanto, di un atto violento motivato da odio, discriminazione, prevaricazione, controllo, possesso, dominio ovvero dal rifiuto di una relazione affettiva.
Quale testo di legge disciplina il femminicidio?
Il nuovo reato di femminicidio (art. 577 bis del codice penale) è stato introdotto dalla Legge 2 dicembre 2025, n. 181 recante “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime“ approvata dalla camera dei deputati nella seduta del 25.11.2025 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 280 del 2 dicembre 2025. La norma si applicherà pertanto ai reati commessi a partire dal 17 dicembre 2025.
Qual è la pena prevista per il reato di femminicidio?
Al fine di rispondere a questa importante domanda è opportuno qui di seguito ritrascrivere il testo dell’articolo 1 della citata legge: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali è punito con la pena dell’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo si applica l’articolo 575”.
La pena base prevista è, pertanto, quella massima contemplata dal nostro ordinamento: l’ergastolo.
Per il reato di femminicidio sono applicabili circostanze aggravanti?
Si. Al reato di femminicidio si applicano le circostanze aggravanti prevedute dagli artt. 576 e 577 del codice penale.
Al reato di femminicidio si possono applicare circostanze attenuanti che comportino l’irrogazione di una sanzione detentiva diversa dall’ergastolo?
La norma suddetta (art. 1 L. 2 Dicembre 2025 n. 181) prevede che: “Quando ricorre una sola circostanza attenuante ovvero quando una circostanza attenuante concorre con taluna delle circostanze aggravanti di cui al secondo comma (quelle previste dagli artt. 576 e 577 c.p. N.D.R.), e la prima è ritenuta prevalente, la pena non può essere inferiore ad anni ventiquattro. Quando ricorrono più circostanze attenuanti, ovvero quando più circostanze attenuanti concorrono con taluna delle circostanze aggravanti di cui al secondo comma (quelle previste dagli artt. 576 e 577 c.p. N.D.R.), e le prime sono ritenute prevalenti, la pena non può essere inferiore ad anni quindici».
È dunque possibile che alla luce di circostanze attenuanti applicabili l’imputato del reato di femminicidio sia condannato ad una pena meno afflittiva dell’ergastolo.
Il reato di femminicidio è viziato da incostituzionalità per violazione dell’art. 3 della costituzione?
Si sospetta che l’articolo 577 bis c. p. (reato di femminicidio) cada sotto la scure della Corte Costituzionale e sia dichiarato incostituzionale per violazione dell’art. 3 della carta che prevede che: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
E allora, si sostiene, perché punire più severamente l’omicida di sesso maschile? Non costituisce questa disparità di trattamento essa stessa una discriminazione dettata dall’appartenenza ad uno specifico sesso?
Coloro che sostengono la costituzionalità della norma sottolineano che la Costituzione impone di trattare in modo diverso situazioni diverse, non di trattare allo stesso modo situazioni che non lo sono. In tal senso la violenza di genere patita dalle donne costituirebbe un fenomeno assurto a tale allarme sociale da meritare una tutela specifica e rafforzata. La donna, in altre parole, sarebbe soggetto tanto fragile ed esposto ad abusi da meritare una tutela giuridica specifica e di maggiore intensità.
Maltrattamenti
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