Diritti civile e Diritto del lavoro
Fiducia nella giustizia
- Torta Sacher per trentadue persone;
- 8 bottiglie di spumante brut e 4 di spumante dolce;
- Parlare con la proprietaria del locale per gli ultimi dettagli;
- Pacco col regalo;
- Lista degli invitati ancora incerti;
- Pergamena con discorso celebrativo.
Appallottolai il foglietto con quei ridicoli appunti e lo lanciai in un cestino, tanto avrei ricordato a memoria ogni singola parola.
Mi sfuggì uno sbuffo di stanchezza. L’organizzazione del festeggiamento del trentesimo compleanno di Claudia, la mia fidanzata, si era rivelato molto più impegnativo del previsto…e mancavano poche ore al tanto atteso evento.
Davanti ad un semaforo rosso, mi fermai a pensare all’opportunità di non rientrare affatto in studio ma di recarmi immediatamente al Barattolo, la birreria che avrebbe ospitato la festa, chiudendo per una sera agli altri clienti.
Claudia ci teneva che il locale fosse addobbato a festa e che una targhetta indicasse i nomi delle persone che avrebbero dovuto accomodarsi a ciascun tavolo.
Scossi la testa con risolutezza. “No” pensai “un avvocato, in orario di lavoro, deve essere pronto a presidiare il proprio fortino, deciso a respingere l’assedio dei nemici…”. E svoltai a destra, verso la piazza che mi avrebbe condotto al mio posto di battaglia.
Tuttavia, nonostante i buoni propositi, ero talmente intento ad immaginare nei minimi dettagli ciò che sarebbe accaduto al Barattolo, che non mi avvidi di una buca al centro del marciapiede. Inciampai e mi salvai solo grazie ad un palo al quale riuscii ad aggrapparmi. “L’amore a volte può costarti la vita” pensai con un sorriso.
All’arrivo in studio, trovai il socio e amico Claudio che mi indicava la mia stanza. Attraverso i vetri opachi si intravedeva un’ombra sottile che si agitava oltre la porta.
«C’è una tua cliente». Sussurrò. «Una certa Laura Martini. L’ho fatta accomodare nella tua stanza. Mi ha fatto pena, poveretta».
Corrugai la fronte perplesso. «Strano. Non avevo appuntamenti segnati in agenda».
«Infatti lei l’ha detto: non ho un appuntamento».
Blaterai il mio disappunto. Avrei congedato quella signora in pochi minuti, per dedicarmi a ciò che contava davvero: l’inesauribile bisogno di amore di Claudia.
Osservai il mio socio con stupore. Lui non era solito intenerirsi davanti ai veri o presunti casi umani ed aveva un concetto della professione piuttosto incline ad un cinico distacco dai problemi dei clienti. «In che senso ti ha fatto pena?».
Lui mi rispose, mentre mi dava le spalle, diretto alla sua stanza. «Aveva gli occhi di un fantasma. Vai da lei. Te ne renderai conto».
Non avevo alcuna intenzione di perdere il mio poco tempo a vestire i panni dello psicologo, come mi capitava troppo spesso di fare, ma decisi di non sottrarmi a quell’incontro ed aprii la porta della mia stanza.
Mi ritrovai davanti una donna dall’apparente età di quaranta anni, intenta a divorarsi le unghie. Se ne stava in piedi, ciondolando su entrambi i lati, ad un metro dalla mia scrivania e mostrava una gran fretta di parlare.
Claudio aveva ragione: quella donna sembrava passarsela piuttosto male. Tre vistose rughe da vecchia le solcavano la fronte. Aveva i capelli sfatti e due occhiaie simili a caverne. Gli occhi erano lucidi, segno che aveva smesso da poco di piangere.
Decisi, una volta tanto, di non soccombere al mio sdolcinato buonismo.
«Signora, buongiorno. Io ricevo solo su appuntamento. Non credo che lei ne abbia uno per oggi».
La signora si trincerò dietro un’espressione contrita. «Non ce l’ho, in effetti, mi deve scusare. Se vuole torno un altro giorno. Mi ha fatto il suo nome una mia amica che ha grande stima di lei, la signora Pergola. Per favore, se ha tempo, mi aiuti».
“La Signora Pergola…”. Aprii uno ad uno i cassetti della mia memoria e dall’ultimo fuoriuscì l’immagine di una donna piena di lividi, che avevo convinto a denunciare il marito violento.
Il buonismo trionfò anche quella volta e le feci segno di accomodarsi. «Non ho molto tempo, signora, ma mi dica: come posso esserle utile?».
«Sto vivendo un incubo, avvocato…».
“Ecco” mi dissi “l’ennesimo cliente che ha bisogno di uno psicologo più che dell’avvocato. Il centesimo cliente incapace di distinguere l’angoscia dai fatti che l’hanno generata…”. Provai ad essere accomodante. «Che tipo di incubo sta vivendo, signora?».
«Lavoro da quattro anni in un grande studio di commercialisti. Lo studio Rota Lauricelli, conosce? Avevo una bella stanza, con un computer, un classificatore e delle responsabilità. Da tre mesi mi trovo rinchiusa in uno stanzino, con una finestrella affacciata su un puzzolente cavedio interno. Prima mi occupavo della contabilità di tre grosse aziende, ora passo il tempo a catalogare cartaccia e a mandare al macero i fascicoli che riempiono l’archivio da troppo tempo. Vengo umiliata quotidianamente, mi creda. Il Dottor Rota mi ripete che non valgo nulla, che non posso fare la commercialista».
La fissai con sospetto. «Che tipo di vertenza vorrebbe intraprendere, signora?».
«Per mobbing, ovviamente!».
MOBBING
Ecco una parola che mi terrorizzava solo ad immaginarla.
Ci avevo perso tre cause, benché ogni volta avessi profuso il massimo impegno professionale e la più totale dedizione umana.
Tre orribili sentenze di rigetto di altrettanti ricorsi, scritti con cura e dopo uno studio accurato dei fatti.
Tutte e tre le volte il giudice di turno mi aveva dato torto, condannando persino i miei clienti a rifondere le spese legali di controparte, sottolineando come avessi fallito nello sforzo di supportare le mie argomentazioni con prove decisive e convincenti. Ogni dannata volta era mancato un tassello decisivo a comporre il puzzle della mia difesa.
Scossi la testa. «Signora, ho il dovere professionale di dirle che una causa per mobbing non è una passeggiata».
Lei ebbe un fremito di sorpresa. «Cosa intende dire?».
«Intendo dire che forse è meglio trattare col suo datore di lavoro il ripristino delle sue vere mansioni, quelle per le quali è stata assunta, piuttosto che imbarcarsi in una causa dall’esito quantomeno incerto».
La Signora Martini, prima pallida e tremebonda, si fece d’improvviso arcigna e determinata. «Per favore, avvocato. Voglio fare una causa per mobbing!».
«Lei non si rende conto delle difficoltà…».
«Io mi rendo conto dell’enorme danno che ho subito. Non mi basta riavere la stanza col pc e l’aria condizionata. Voglio il risarcimento di tutti i danni che ho subito».
Infastidito da quella improvvisa aggressività, le sventolai davanti agli occhi tre dita della mia mano sinistra: un dito per ciascuna delle cause perse.
«Per intentare una causa di mobbing ci vogliono tre requisiti. Primo: fatti oggettivi e gravi di maltrattamento sul lavoro. Secondo: la possibilità di provarli con testimoni o documenti, tipo mail o messaggi sul cellulare. Terzo: la relazione di un medico qualificato disposto a dichiarare che quei maltrattamenti hanno prodotto a carico della vittima un danno alla salute. Un danno psichico o fisico». Mi infervorai, sollevandomi dalla sedia. «Le posso assicurare che i colleghi di lavoro non testimoniano contro il loro principale e che una relazione medica è assai difficile da ottenere. Ci ho perso tre cause, signora, e quando ci penso mi sembra di rivivere un lutto. I miei clienti chiedevano un danno di decine di migliaia di euro e sa com’è finita? Che hanno dovuto pagare loro l’onorario di arroganti difensori di controparte. Ascolti il mio consiglio: voliamo basso. Mandiamo una raccomandata in cui denunciamo il suo demansionamento, così che lei possa riavere le sue tre belle aziende di cui seguire la contabilità».
La Signora scosse la testa. «Io non ci voglio più stare in quel posto. Io voglio solo il risarcimento dei danni che ho subito e le assicuro che sono tanti».
«Allora io non sono l’avvocato giusto. Ci sono passato per ben tre volte ed è andata sempre male».
La Signora Martini mi sorrise. «Avvocato Mayer, la mia amica aveva ragione. Lei è proprio una brava persona. Si vede che non è un venditore. Tornerò da lei con le carte giuste. Non si preoccupi».
Mi rivolse un’ultima occhiata sul pianerottolo, dopo che c’eravamo stretti la mano. «Lei ha perso tre cause di mobbing, avvocato. Sono convinta che non sia stata colpa sua. Ma le assicuro che vincerà la quarta».
Mi lasciò incredulo per la determinazione che mostrava, mentre i suoi passi risuonavano oltre l’angolo delle scale.
Rimasi a domandarmi se la Signora Martini fosse il fantasma spaurito del nostro primo impatto o la donna battagliera e sicura che si era appena congedata da me.
Quella domanda mi frullava nella testa anche tre ore dopo, mentre riempio di liquido giallo paglierino i calici degli ospiti di Claudia, sotto un lampadario di eleganza posticcia.
La festa si stava rivelando un autentico successo, tra abbracci e fette di torta divorate, anche se uno sbarbato liceale, figlio di una collega di Claudia, mi diede il tormento per oltre mezz’ora. Mi guardava con l’aria di quello che vuole a tutti i costi dimostrare di essere un “ragazzo sveglio” e mi rivolse la solita stucchevole domanda. «Come fa un avvocato a difendere un colpevole di omicidio?».
In quelle occasioni, stufo di ripetere a pappagallo la preconfezionata risposta di sempre, preferivo voltare le spalle e andarmene, fingendo di non avere sentito. Ma quella volta, essendo la festa della mia fidanzata, preferii non sottrarmi.
Dissi le solite banalità: un uomo è presunto innocente fino a sentenza definitiva di condanna; non conta solo l’assoluzione dell’imputato ma anche una pena più lieve, magari fuori dal carcere, la concessione delle circostanze attenuanti e la sospensione condizionale della pena; ciascuno ha diritto di essere difeso anche se apparentemente colpevole e bla bla bla. Forse per l’effetto benefico dell’ottimo prosecco, quella sera mi spinsi oltre e inquadrai il ragazzino nel mirino dei miei occhi verdi. «Devi sapere che in ciascuno di noi si annida un demone crudele. Ciascuno di noi è un potenziale omicida, ma nessuno di noi deve essere considerato un mostro. Non puoi fare il penalista se ignori queste due verità e se non hai sull’umanità quello sguardo benevolo che ti porta a concedere una seconda occasione».
Claudia mi rapì, presentandomi, uno ad uno, a una folla di sconosciuti. «Lui è Alessio, il mio fidanzato. È un vero talento del foro. Ha aperto uno studio a soli trent’anni, la mia età attuale. Sono davvero orgogliosa di lui».
Io sorridevo, come inebetito, mentre stringevo una quantità incalcolabile di mani. Ero felice per le parole di Claudia. Inutile negarlo: la sua stima accresceva la mia autostima.
Si levarono decine di calici e i cristalli tintinnarono, accarezzandosi l’un l’altro.
I sorrisi, i battimani e gli auguri si sprecavano.
Io ero abbagliato dalle luci dei faretti addossati alle pareti e mi chiedevo se avrei mai rivisto la signora Martini. Temevo di essere stato troppo brutale e sbrigativo con lei.
La rividi tre settimane più tardi.
Era sorridente e le occhiaie sembravano meno pronunciate. Stringeva tra le mani un dossier rilegato in copisteria, che mi consegnò prima ancora di iniziare a parlare.
«Di cosa si tratta?». Domandai con la massima gentilezza possibile.
«Si tratta di una relazione del professionista che mi segue. Parla della terapia a cui mi sto sottoponendo, dei miei disturbi del sonno, della mia depressione. Dice che tutto questo è stata causato dal mio datore di lavoro, l’esimio Dottor Rota».
Scorsi le trentadue pagine dell’elaborato, con occhio clinico. Constatai subito che era scritto con grande attenzione ai dettagli. Più che una relazione aveva l’aspetto di una perizia già pronta per essere depositata in Tribunale, nelle mani del giudice di turno.
Lo psichiatra sottolineava come il demansionamento fosse stato vissuto dalla mia cliente come un vero e proprio fallimento esistenziale, determinando la disgregazione dei pilastri stessi della sua personalità. C’era scritto che quello stanzino dell’archivio, in cui la signora Martini era stata pregata di seppellirsi, era stato percepito, da un animo ferito e provato, come una prigione o forse persino come la tomba di ogni aspirazione professionale. La signora risultava essersi “ritirata dal mondo”, rifiutando di vedere gli amici e i parenti per la vergogna che quell’epilogo le faceva provare. Un capitoletto della relazione era dedicato ad un’anamnesi delle condizioni psichiche attuali della paziente. Si faceva cenno ad una sindrome bipolare con perdita del sonno e dell’appetito.
Sollevai lo sguardo dalle carte e sorrisi con convinzione. «Molto bene. Si tratta di una relazione accurata».
Lei sgranò gli occhi, con entusiasmo infantile. «Allora possiamo fare causa? Se la sente adesso?».
Riflettei, sforzandomi di scrollarmi di dosso ogni forma di negatività preconcetta. «Manca ancora un tassello per comporre il puzzle».
«E quale?».
«I testimoni. Lo psichiatra può sostenere che i maltrattamenti da lei riferiti possono essere causa della depressione che la affligge, ma non può dire se si sono realmente verificati. Questo possono farlo solo i testimoni oculari».
La signora non sembrò perdersi d’animo. «Ha ragione, avvocato. Tornerò da lei con un elenco dei testimoni». Non volle perdere tempo e si alzò di scatto dalla sedia.
Scostai le tendine bianche ricamate della finestra e la osservai mentre attraversava la piazza a passo rapido, come avesse fretta di scrivere il capitolo successivo di quella storia. Pensai che fosse una donna fragile e determinata al tempo stesso. Il coraggio, dopo tutto, non nasce proprio dalla paura?
Quella sera parlai di Laura Martini a Claudia e lei mi riproverò per le titubanze che mostravo nell’accettare di difenderla in tribunale. «Perché queste paure? Non capisco».
«Non sono affatto paure». Replicai. «Sono semplicemente remore. Tre precedenti episodi sfavorevoli sono tanti. Non voglio che la signora Laura ci rimetta dei soldi».
Claudia mi sorrise, mentre riempiva il mio piatto di trenette al pesto. «Che strano sentire queste parole da te. Proprio tu che non ti dai mai per vinto e che quando cadi sei sempre pronto a rialzarti. Non farti condizionare dal passato!».
Quelle parole mi resero felice e sentii l’esigenza di baciarla.
Il terzo colloquio in studio con la Signora Martini fu il più lungo.
La cliente si sedette davanti alla mia scrivania, sbandierando un foglio pieno di appunti. «Avvocato Mayer, lei mi ha detto che avevo bisogno di testimoni. Qui ci sono i nomi di tutte le mie colleghe disposte a testimoniare in mio favore e contro il Dottor Rota».
Allora estrassi un foglio bianco dal cassetto, impugnai la biro e decisi di porre fine ai miei tentennamenti. «Cara Signora, la prego di dirmi nome, cognome, indirizzo di ciascun testimone e il ruolo ricoperto nello studio commercialistico da ciascuno di loro. Per ciascun testimone dovrebbe anche indicarmi i fatti su cui lo chiameremo a deporre».
La Signora Martini fu felice di vedermi finalmente pronto ad entrare in azione e non perse tempo. «Cinzia Pensabene, dopo le scrivo l’indirizzo, segretaria dello studio. Lei può testimoniare sul fatto che tre mesi fa sono stata chiusa nello stanzino dell’archivio a consultare scartoffie. Lorella Cuffa, mia collega, può testimoniare sul fatto che il mio capo mi chiamava “la fallita” con tutti i miei colleghi. Carla Anguissola…».
Smisi di prendere appunti più di un’ora dopo. Mi sentivo sfinito.
In udienza, le testimonianze chieste da Laura Martini si risolsero in una pietosa sequela di “non ricordo…non mi sembra…non ho visto”. Che tristezza vedere Cinzia Pensabene, Lorella Cuffa e Carla Anguissola pasteggiare a spumante, in un bar di via Manara, con il dottor Rota, subito dopo l’udienza.
La consulenza tecnica d’ufficio, che accertò un grave danno psichico subito dalla mia cliente, concluse per l’impossibilità di ricondurlo a fatti di maltrattamento sul lavoro. Il consulente disse che in tal senso mancava la certezza scientifica.
Provai ad incalzarlo. «Possibile che non ci possa dire proprio niente sulle cause della depressione della mia cliente un perito esperto come lei?». E lui di rimando. «Avvocato per me la sua cliente potrebbe anche essere caduta in depressione ed avere perso il sonno semplicemente perché mollata dal fidanzato».
Il mio pronostico nefasto fu rispettato. Laura Martini perse la causa per mancanza di prove. Il giudice fu clemente e non la condannò a pagare la parcella dell’avvocato di controparte.
Alla lettura del dispositivo, che sanciva la mia sconfitta, strinsi i pugni per la rabbia e pensai “Mai più cause di mobbing! Mai più!”.
Il giorno successivo, mi spettò il doloroso compito di consegnare una copia della sentenza alla mia assistita. «Mi spiace terribilmente. Abbiamo perso, signora!».
Lei si accasciò sulla sedia «Le mie colleghe hanno avuto paura di inimicarsi il capo e di essere licenziate. Ecco com’è andata».
«Niente di più probabile». Confermai.
Lei mi rivolse un’occhiata rassegnata. «Aveva ragione lei, avvocato, ha perso la quarta causa per mobbing!».
«Avrei preferito avere torto. Mi creda».
«Che strana sensazione, avvocato».
«Che sensazione?».
«Avevo più fiducia nella giustizia io di lei. Non dovrebbe succedere il contrario?».
La fissai senza parlare e feci un sospiro amaro.
Il Mobbing
Che cosa s’intende per mobbing?
Si definisce mobbing una condotta vessatoria e persecutoria, sistematica e prolungata nel tempo, posta in essere contro un lavoratore da parte di colleghi o superiori, che provoca a carico della vittima un danno alla salute o alla dignità, a condizione che sia provato effettivamente e concretamente un nesso causale tra il comportamento predetto e il danno subito.
Perché si possa parlare di mobbing occorre dunque che:
- Il comportamento vessatorio, fisicamente o psichicamente violento, sia ripetuto sistematicamente, esercitato continuativamente nel tempo e non si riduca ad un solo atto ostile;
- Da parte dell’autore del reato deve esservi, a danno della vittima, un intento persecutorio;
- L’autore della condotta deve essere il datore di lavoro, un superiore gerarchico o un collega della vittima;
- Il comportamento vessatorio deve causare a carico della vittima un danno alla salute fisico o psichico.
Il termine mobbing deriva dal verbo inglese to mob: «assalire in massa», «circondare».
Qual è la fonte normativa del mobbing?
La Corte Costituzionale con la pronuncia n. 359 del 19.12.2003 ha chiarito che: “Il termine mobbing designa, in campo etologico e sociologico, un fenomeno articolato consistente in una serie di atti e comportamenti vessatori, di tipo commissivo od omissivo – magari in sé leciti o da soli giuridicamente insignificanti, ma elementi rilevanti in un’ottica complessiva – protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore, destinatario e vittima, da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui egli è inserito o del suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione. Posto che, allo stato delle attuali esperienze, il fenomeno del mobbing provoca l’insorgere nel destinatario di disturbi eventualmente anche a sfondo psicotico, ovvero reazioni alle persecuzioni ed emarginazioni a carattere perfino illecito che possono condurre alle dimissioni o al licenziamento, un’ipotizzabile regolamentazione in materia può riguardare un triplice oggetto la prevenzione e repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno, le misure di sostegno psicologico della vittima e, se del caso, le procedure di accesso alle necessarie terapie sanitarie, il regime delle condotte poste in essere per reazione dalla stessa vittima. Premesso che, in carenza di specifica normativa statale, la giurisprudenza prevalente riconduce le fattispecie di mobbing entro la previsione dell’art. 2087, cod.civ., concernente le misure che, a pena di responsabilità, l’imprenditore deve adottare a tutela dell’integrità fisica e morale del prestatore, la materia riguardata dal fenomeno, valutato nella sua complessità anche alla luce degli atti normativi interni e comunitari, è riconducibile, sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, all’ordinamento civile di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost., nonché, comunque, all’esigenza di salvaguardia della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore, a mente degli artt. 2 e 3, Cost., mentre, per gli aspetti incidenti sulla salute fisio-psichica del lavoratore, rientra, ai sensi dell’art.117, comma 3, nella tutela e sicurezza del lavoro ed in quella della salute, cui la prima tutela si collega”.
Quali prove occorre avere per intentare una causa di mobbing?
Per intraprendere una causa di mobbing occorre poter far leva sui seguenti elementi probatori:
- La prova del comportamento reiterato e vessatorio esercitato in danno della vittima dal datore di lavoro, da colleghi o superiori gerarchici. Tale prova può essere offerta a mezzo di testimonianze (a patto che i quesiti sottoposti al teste siano ben articolati e specifici) ovvero con la produzione in giudizio di prove documentali, come mail, post sui social, comunicazioni scritte o messaggistica cellulare;
- Relazione medica che attesti:
- una patologia fisica o psichica a carico della vittima;
- l’evidenza scientifica che tale danno è effetto di una causa consistente nel comportamento vessatorio sul lavoro.
