Diritto Civile
Oltre la legge
Mi aggiustai i pendagli della toga sulle spalle, in attesa che il Presidente della terza sezione penale del Tribunale di Milano mi desse la parola.
Amir, con la sua solita faccia da furbacchione mi rivolgeva un’occhiata complice.
Avevamo studiato infinite volte, a quattr’occhi, l’interminabile sequela di trascrizioni di intercettazioni telefoniche ed ambientali tra i componenti della banda criminale, denominata “lo sputo”, che importava in grandi quantitativi dalla Spagna l’hashish e la marjuana, per poi rivenderla ai consumatori finali in Lombardia, specie nella provincia di Milano. Non ve n’era una, dico anche una sola, dalla quale risultasse una diretta conoscenza dei capi dell’associazione criminale da parte di Amir.
Il mio cliente, fin dal primo interrogatorio e ancor prima di ricevere i miei più rudimentali consigli, aveva ammesso di aver attivamente partecipato a singole cessioni di sostanze stupefacenti, ma aveva negato con forza di essersi reso conto di far parte di una associazione criminale. Diceva di aver operato solo al servizio del cugino, molto più esperto di lui in fatto di crimini.
Per di più avevo fatto acquisire nel fascicolo d’ufficio una relazione del SERD che attestava come il mio cliente, in origine tossicodipendente, si stesse impegnando in un percorso di pieno recupero dalla droga.
Afferrai il microfono e feci una delle arringhe più brillanti della mia ancor giovane carriera. Chiesi con forza che il mio assistito fosse prosciolto dall’imputazione più grave: l’associazione a delinquere. Insistetti perché lo stesso fosse condannato al minimo della pena per le cessioni di stupefacente, tenuto conto del suo stato di tossicodipendenza e della modesta quantità di sostanza detenuta.
I tre giudici mi ascoltavano con attenzione. Quello più a destra prendeva appunti.
Tuttavia, dopo venti minuti di sproloquio, venni interrotto, perché il presidente stava confabulando con uno dei due giudici a latere.
Allora mi voltai verso il fondo dell’aula e lo vidi.
Era un giovane di circa trent’anni che mi scrutava con occhio attento e profondo, tanto che avvertii l’esigenza di sorridergli.
La mia discussione durò in tutto quarantacinque minuti e la camera di consiglio fu persino più breve. La lettura della sentenza mi regalò un brivido di gioia: due anni di pena detentiva con la condizionale per il solo spaccio; assolto dal reato associativo. Un vero successo.
Amir mi abbracciò per la gioia incontenibile, un poco oltre la soglia dell’udienza.
Percorsi a passo rapido l’atrio al terzo piano del palazzo di giustizia, dominato dai severi marmi dell’architettura fascista, fiero di me stesso e desideroso di fumarmi una sigaretta “meditativa” lungo il marciapiede del palazzo di giustizia, quando mi sentii chiamare alle spalle e mi girai di scatto.
Vidi a due metri da me quello stesso giovane a cui avevo sorriso in aula e che evidentemente mi aveva pedinato fin lì.
«Volevo farle i complimenti, avvocato. È stato davvero molto bravo nella sua arringa».
Quel apprezzamento mi sorprese, ma non mi infastidì. «Grazie. Le capita spesso di seguire le udienze penali in tribunale?».
«Oh, sì. Io amo i processi. Mi pento di non aver studiato legge. Cerco anche un bravo avvocato…lei s’intende di successioni?».
Quella parola, “successioni”, evocava in me lo spettro di un ostile guazzabuglio di norme. Mi faceva pensare a case, aziende, polizze assicurative da sminuzzare in tanti frammenti destinati a diventare fettine di una gigantesca torta da spartire tra commensali affamati e carichi di odio.
Tuttavia non amavo rifiutare una pratica, anche perché un nuovo cliente era l’unico mezzo che conoscevo e di cui volevo avvalermi per produrre denaro fresco. E poi quel bizzarro giovane mi faceva simpatia e mi sembrava diretto e sincero. «Si, certo. Mi occupo anche di successioni». In fondo era vero. Dopo tutto il caso del dottor Molinari, il mio farmacista, era qualificabile come controversia successoria visto che vedeva due fratellastri opposti nella divisione dell’eredità paterna.
«Avvocato, avrebbe un suo biglietto da visita?».
Gli allungai l’ultimo rettangolo di carta patinata che mi era rimasto nella tasca laterale del portafoglio. Il giorno dopo avrei dovuto fare visita al tipografo sotto lo studio, per rinnovare la scorta.
«Non vorrei perdere tempo. Posso chiamarla oggi stesso, magari nel pomeriggio?».
«Può chiamarmi quando vuole. Anche oggi pomeriggio».
«Grazie, avvocato».
«Di niente».
Ci salutammo all’uscita del palazzo di giustizia, dopo avere disceso insieme l’ampia scalinata.
Affrettai il passo, una volta in strada. Rinunciai alla fumata meditativa e mi infilai nel bar più vicino. Volevo festeggiare con una coppa di spumante l’inatteso successo processuale del mattino.
Quando sono felice c’è una sola persona in compagnia della quale voglio davvero stare: me stesso.
Il giovane del tribunale non perse tempo, come aveva detto, e mi chiamò tre ore dopo che c’eravamo lasciati. Scoprii così che si chiamava Stefano Peduzzi.
Il caso mi incuriosiva alquanto, tanto che riempii col suo nome il primo spazio bianco della mia fitta agenda.
Stefano Peduzzi si presentò all’appuntamento con mezz’ora di ritardo, stupendomi alquanto.
Avanzava lungo il corridoio con incertezza e aveva uno sguardo meno intraprendente e sicuro di quello esibito in Tribunale.
Stringeva tra le dita un solo foglio spiegazzato, dattiloscritto, con una firma di pugno in corrispondenza dell’ultima riga, qualche centimetro sotto la fine del testo.
Il foglio sembrò scivolargli dalle dita e planare sulla superficie di massello della mia scrivania.
Lo incoraggiai ad espormi il suo problema.
«Il mio compagno è morto due mesi fa, all’improvviso…un ictus devastante. Forse ne ha sentito parlare. Si chiamava Giacomo Arrigoni, aveva due anni più di me ed era uno scrittore di successo».
Scossi la testa perché il nome non mi diceva nulla.
«…Giacomo aveva fatto un bel po’ di soldi…un bel conto in banca e una casa al mare. Noi convivevamo da tre anni, a Monza. Ci amavamo moltissimo».
Indicò il foglio che giaceva sulla scrivania. «Giacomo voleva lasciarmi metà del suo patrimonio. L’ha scritto proprio su quel pezzo di carta».
Lo guardai con costernazione, perché avevo già esaminato il documento mentre lui mi raccontava l’accaduto. «Lei mi sembra un giovane sveglio e intelligente». Esordii. «Saprà certamente che questo testamento è assolutamente nullo e che nessun notaio, neppure strapagato, accetterà di pubblicarlo».
Lui annuì, mordendosi un labbro. «Il testamento olografo deve essere interamente scritto e sottoscritto a mano dal testatore, giusto?».
«Proprio così».
«Eppure ci voglio provare, avvocato. Se non facessi nulla per rivendicare i miei diritti mi sembrerebbe di tradire l’amore di Giacomo, il suo più grande desiderio. Sarebbe come tradire tutta la nostra storia».
«Insistere per pubblicare questo testamento? Sarebbe inutile».
«Insistere perché sia rispettata la volontà di Giacomo, avvocato. Pensi che aveva preso un appuntamento con il suo amico notaio. Non ci crederà, ma è morto due settimane prima di quell’appuntamento. Il notaio può testimoniarlo».
Aggrottai la fronte e mi feci meditativo. «La strada potrebbe esserci. Lei avrà sentito parlare della legge Cirinnà sulle unioni civile. Lei e il suo compagno avete formalizzato la vostra unione davanti all’ufficiale di stato civile?».
Stefano Peduzzi scosse il capo. «Ci avevamo pensato. Non abbiamo avuto il tempo per fare nemmeno quello. Eravamo entrambi giovani, avvocato, il destino ci ha sorpresi».
Piegai il busto in avanti, per creare una maggiore intimità tra noi. «Questa storia è tristissima. Mi spiace per lei, ma non vedo proprio come posso aiutarla».
«Io un’idea ce l’avrei».
«E quale?».
«Se la sentirebbe di scrivere ai genitori e al fratello minore di Giacomo? Il padre è molto ricco. Ha una grande azienda vinicola in Franciacorta. In fondo si tratterebbe di comunicare loro le reali intenzioni di Giacomo…di invitarli ad un gesto di umanità. Non le pare?».
Mi feci convincere. «Ci penso. Vedo cosa posso fare».
Quella storia tristissima mi tormentò per tutto il pomeriggio, tanto che la notte non riuscii ad addormentarmi.
Il mio volto doveva essere rischiarato dalla lama di luce del lampione che perforava le persiane, tanto che Claudia, che riposava al mio fianco, se ne accorse e mi accarezzò il solito ciuffo biondo. «A cosa pensi?».
Accostai il cuscino alla spalliera del letto e le raccontai la storia di Stefano Peduzzi e del suo Giacomo.
«Sono completamente d’accordo che un convivente fisso debba essere trattato come se fosse un marito». Commentò lei. «Però penso che per diventare marito e moglie ci si deve sposare, celebrare un rito. Così due uomini che vivono insieme per dare stabilità al loro rapporto mi pare giusto che debbano registrarsi in comune, se ne hanno la possibilità».
«Hai ragione, ma quelli avevano trent’anni. Erano troppo giovani per pensare all’eredità. A quell’età si è impegnati a godersi la vita. Sarebbe come se io e te pensassimo a fare reciprocamente testamento l’uno in favore dell’altra».
Le mie riflessioni furono tanto profonde, che al mattino decisi di mettermi immediatamente all’opera e scrissi ad Ermanno, Cinzia e Marco Arrigoni, rispettivamente padre, madre e fratello del povero Giacomo.
Con mia grande sorpresa, il signor Ermanno mi chiamò al telefono a nome di tutti e tre e prese un appuntamento per incontrarmi. «Queste cose non si trattano al telefono con un sì o un no». Precisò. «Ma incontrandosi di persona e chiarendosi».
Si presentarono alla porta del mio studio scortati da un avvocato, dal forte accento bresciano, che avevo talvolta intravisto in tribunale.
Tutti e quattro strinsero la mano a Stefano Peduzzi. Il padre di Giacomo abbozzò anche un sorriso.
Il collega di controparte sembrava non essere interessato a quella vertenza, tanto che per cinque minuti camminò avanti e indietro nella mia stanza, dalla scrivania alla finestra, con il cellulare attaccato all’orecchio, urlando che i soldi dovevano essere bonificati quel giorno stesso, altrimenti non sarebbe stato firmato alcun accordo. Quando ebbe finito la tumultuosa conversazione allargò le braccia in un gesto desolato. «Scusatemi, ho un’urgenza in studio e devo lasciarvi. Tanto quella di oggi è solo una chiacchierata informale, vero?».
«E’ solo una chiacchierata». Confermai.
Poi il collega strinse la mano ai suoi tre clienti. «Vi confermo quanto vi ho già detto. La legge è dalla vostra parte, se però pro bono volete riconoscere qualche soldo a questo signore siete liberi di farlo. La generosità non è ancora diventata un reato». E sparì alla velocità della luce.
Restammo in cinque e, dopo la mia introduzione sulle ragioni di quell’incontro, la prima a prendere la parola fu la madre di Giacomo. La signora Cinzia strinse le mani davanti al petto, come se pregasse, e assunse un’aria contrita. «Noi non abbiamo niente contro questo signore, che ci sembra un gran bravo giovane. Ma ci sentiamo più tranquilli a seguire la legge. Ci sarà una ragione se il codice civile stabilisce che in questo caso ereditano i componenti della famiglia d’origine, non è vero?». Poi si rivolse con un sorriso sfuggente al mio cliente. «Dalle nostre bocche non uscirà una sola parola contro di lei, Signor Peduzzi. Noi siamo aperti a tutte le forme di diversità».
I lineamenti del volto del mio cliente si contrassero in uno spasmo. «Io non sono affatto un diverso, signora, per usare le sue parole. Al mondo quando amiamo lo dovremmo fare tutti allo stesso modo, sforzandoci di vedere le cose con gli occhi dell’altro».
Ermanno Arrigoni scattò in piedi. «Signor Peduzzi, deve scusare mia moglie. Si è espressa male. Qui dentro siamo tutti uguali. Siamo stati sconvolti dalla perdita di Giacomo e sappiamo che anche lei sta vivendo un grande dolore. Per rispetto di questo dolore siamo qui oggi. Ma purtroppo io e Cinzia vogliamo pensare solo al figlio che ci rimane, a Marco. A lui lasceremo tutti i nostri soldi. A lui e a nessun altro. Lei è stato vittima di una situazione molto sfortunata a cui purtroppo non c’è rimedio. Noi dobbiamo seguire le regole della giustizia, che sono chiare e oggettive. Non è con la generosità, ma con la legge che si risolvono i piccoli e grandi problemi delle persone. Fuori dal perimetro della legge è tutto opinabile. Io personalmente non mi tolgo dalla testa il fatto che quel testamento che ci ha fatto vedere sia nato nullo per precisa scelta di mio figlio. Magari Giacomo non voleva veramente togliere i soldi a suo fratello ma desiderava semplicemente dimostrarle il suo affetto».
Stefano aveva le lacrime agli occhi. «Non è così, signor Arrigoni. Può chiedere al notaio Dufour. Giacomo aveva preso appuntamento…».
Il Signor Ermanno scuoteva la testa. «La legge si occupa di fatti non di intenzioni. Non è vero avvocato?».
Il giovane Marco era rimasto in silenzio, con gli occhi fissi sulle proprie scarpe, ma all’improvviso sembrò animarsi. «Papà, ma non credi che sia giusto dare qualcosa a questo signore? Sappiamo quanto Giacomo lo amava. In fondo anche lui era parte della nostra famiglia».
Ermanno Arrigoni sembrò molto risentito per quell’intervento certamente inatteso. «Lasciamo stare il concetto di famiglia, per favore. C’è un solo tipo di famiglia: un uomo e una donna che, a Dio piacendo, generano dei figli. Staremmo freschi se ognuno di noi fosse libero di elaborare il suo personale concetto di famiglia. Dobbiamo essere fedeli alle nostre radici e le nostre radici sono cristiane!».
«Ma papà, tu parli di radici cristiane ma sono più di dieci anni che non entri in una chiesa…».
«Ma che c’entra? Le leggi si fanno in parlamento non certo nelle chiese!».
Intervenni, forse in ritardo, per porre fine ad uno sterile dibattito che non sarebbe stato di alcuna utilità per il mio assistito.
Parlai di obbligazioni naturali che richiamano vincoli di coscienza e imperativi morali, forse più importanti dei precetti giuridici. Mi accalorai nel descrivere la profondità dell’amore che aveva unito, in vita, Giacomo e Stefano.
Lasciai a tutti i miei tre ospiti il mio biglietto da visita, invitandoli a contattarmi in caso di ripensamento, ma ebbi la precisa sensazione che fosse tutto inutile.
Papà, mamma e figlio percorsero il lungo corridoio del mio studio, come una silente processione di fantasmi.
Sull’uscio, mamma Arrigoni volle stringere la mano a Stefano, il grande amore di suo figlio, sussurrandogli. «Coraggio. Si vede che è un bravo ragazzo. Pregherò per lei».
La porta dell’ascensore si chiuse e io rimasi da solo, sul pianerottolo, con un pesante carico di frustrazione. Per un istante ammetto che mi sentii inutile e percepii come inutile anche la mia professione.
Tornai nella mia stanza al fianco di Stefano e mi impegnai ad evitare che il corso degli eventi precipitasse verso l’abisso di guai peggiori.
Mi sedetti davanti a lui e lo guardai fisso negli occhi. «So che cosa sta pensando: fare un testamento olografo falso, imitando la firma del suo compagno. La prego, non lo faccia. Non sarebbe credibile; non più dopo avere mostrato il testamento scritto al computer. Gli Arrigoni farebbero causa e un grafologo smaschererebbe il falsario. Oltre al danno, così, lei avrebbe la beffa di un procedimento penale per falso. Mi prometta che non lo farà!».
«Glielo prometto, avvocato. Adesso, per favore, prima che me ne vada, mi dica quanto le devo. Le ho fatto perdere parecchio tempo».
«Non mi deve nulla. Abbiamo fatto solo una chiacchierata, come ho detto al collega di controparte».
«Lei è troppo gentile, avvocato».
«Avrei voluto fare di più».
«Ha fatto tantissimo. Mi ha dato appoggio e serenità. Mi ha fatto sentire capito. Ma mi permetta una domanda: è possibile che oltre la legge non ci sia nulla?».
Pensai che quella domanda, senza risposta, mi tormentava da sempre e avrebbe continuato a tormentarmi.
Archiviai la pratica Peduzzi con un doloroso segno di pennarello rosso.
Pensai che non avrei più rivisto quel giovane che mi aveva pedinato dall’aula numero tre del Tribunale, ma mi sbagliavo.
Stefano venne a trovarmi in studio, senza appuntamento, quasi un anno dopo.
Andammo al pub dell’angolo a festeggiare con un tagliere di salumi con gnocco fritto e due calici di nero d’Avola il fatto che lui avesse iniziato la convivenza con un nuovo compagno, del quale diceva di essere innamoratissimo.
Mi raccontò che poche settimane dopo l’incontro in studio, Marco Arrigoni, il fratello minore di Giacomo, lo aveva chiamato per dirgli che intendeva passargli dei soldi di nascosto dai genitori, ma che non sapeva come fare. Qualche giorno dopo si erano incontrati e Marco aveva confessato di non sentirsela di tradire la fiducia di suo padre, che aveva fatto tanto per lui.
«In tutta questa triste vicenda ho capito una cosa, avvocato».
«Che cosa?».
«Che oltre la legge esiste qualcosa e che questo qualcosa è la capacità di rimettersi in gioco, di continuare a credere nella vita e di amare sempre con la stessa intensità».
Legge Cirinnà – Unioni civili
Che cosa sono le unioni civili?
L’unione civile è un istituto giuridico introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 1 commi 1, e 2 Legge n. 76/2016, recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, c.d. legge Cirinnà. Trattasi di una formazione sociale costituita da due persone necessariamente maggiorenni, dello stesso sesso, mediante dichiarazione di volontà di convivere stabilmente resa di fronte all’ufficiale di stato civile territorialmente competente e alla presenza di due testimoni.
La promulgazione di questa legge, giunta al termine di un tormentato dibattito politico e sociale spesso segnato da aspre contrapposizioni, è il frutto di un compromesso tra l’orientamento ispirato dal mondo cattolico, deciso a garantire che l’istituto giuridico del “matrimonio” resti riservato alle unioni tra persone di diverso sesso, e l’esigenza di riconoscere legittimità a modelli alternativi di famiglia ovvero, quantomeno, di stabile convivenza. Trattasi, in effetti, di formazioni ormai diffuse nel tessuto sociale e meritevoli di regolamentazione e tutela.
L’iter di approvazione della normativa ha avuto scaturigine in un pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per la mancata adozione di una regolamentazione legislativa delle unioni civili, in violazione dell’articolo 8 della C.E.D.U (diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Anche in questo caso, come in tanti altri, l’input decisivo è derivato dal diritto eurounitario.
Si badi che diritti e doveri nascenti in capo ai soggetti tra loro uniti civilmente, col sigillo dell’ufficiale di stato civile territorialmente competente, non si estendono ai conviventi che non hanno regolarizzato e ufficializzato il loro rapporto.
Ciò significa che per il nostro legislatore due persone che si limitino a vivere sotto lo stesso tetto, senza consacrare istituzionalmente il loro rapporto, non intendono attribuire al loro legame il necessario grado di stabilità.
Quali obblighi, diritti e doveri comporta la stipulazione di un’unione civile?
Circa i rapporti personali tra due soggetti del medesimo sesso uniti dalla stipulazione di un patto di stabile convivenza, la disciplina dettata dal comma 11 dell’unico articolo della Legge n. 76 del 2016 è chiaramente ispirata dal disposto di cui all’art. 143 Codice civile, disciplinante i rapporti tra coniugi,
prevedendo:
- obblighi reciproci all’assistenza morale e materiale. Il prendersi cura del proprio partner rappresenta indice rivelatore di una convivenza in grado di generare rapporti stabili e duraturi e dunque meritevoli di tutela giuridica;
- obbligo di coabitazione (in effetti in assenza di coabitazione non si potrebbe parlare di convivenza stabile). La coabitazione fissa di due persone è indice rivelatore di una effettiva comune volontà di dare vita ad un modello alternativo di famiglia;
- obbligo di contribuzione ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro anche professionale e casalingo. Anche questa disciplina è speculare a quella che regolamenta la vita familiare fondata sul matrimonio;
- diritto di stipulare convenzioni patrimoniali. Sulla scorta di tale diritto, gli uniti civilmente potranno scegliere, come in caso di convenzioni matrimoniali, per la regolazione dei loro rapporti patrimoniali, tra il regime della separazione e quello della comunione dei beni. In caso di mancata scelta di uno specifico regime patrimoniale, alla coppia sarà applicata la disciplina legale della comunione dei beni.
Agli uniti civilmente, diversamente da quanto accade ai coniugi, non si impone il dovere di fedeltà.
Per quale ragione? Forse al fine di distinguere la mera unione civile dal vero e proprio matrimonio, visto come unico vincolo suscettibile di essere ritenuto davvero cogente e infrangibile.
Quali diritti successori sorgono per chi stipula un’unione civile?
Dal punto di vista successorio all’unito civilmente sono riservati i diritti spettanti al coniuge.
Da questo punto di vista l’equiparazione di matrimonio e unione civile è totale.
In effetti il comma 21 dell’unico articolo della legge in commento, opera un formale rinvio alle norme del Codice civile per quel che riguarda molteplici istituti successori compresa la tutela dei legittimari o eredi necessari (ovvero le persone che per legge, in virtù dello stretto legame di parentela con il defunto, hanno obbligatoriamente diritto ad una determinata quota dell’asse successorio, indipendentemente dall’esistenza di un testamento).
Ai sensi del co. 25, restano altresì fermi i diritti dell’ex unito civilmente superstite, previsti dagli articoli 9 co.2 e 9 bis della l. 1° dicembre 1970, n.898, relativi all’assegno divorzile e alla pensione di reversibilità, ove ne ricorrano i presupposti.
